
Quando ero piccolo avevo una zia – sorella di mio padre – che raccontava la strana storia di un mago che scendeva di notte lungo la cappa del camino per spaventare i bambini che “non erano stati bravi” durante il giorno; la zia Fedora lo chiamava Mago Bacù ed era un mago che mi incuteva davvero infantili paure.
Ho poi scoperto in seguito che esisteva una città con lo stesso nome, l’unica differenza era una “k” al posto della “c”. Strano destino per me – che ho viaggiato tanto – non aver mai avuto l’opportunità di visitare l’Azerbaigian e – soprattutto – la sua capitale. Preso com’ero dal nome evocativo, ho in seguito approfondito l’argomento – grazie a letture ed esplorazioni cartografiche – ma erano sempre tante le domande che mi ponevo e che esigevano comunque una risposta.
Fossi andato a Baku, cosa avrei cercato di scoprire? Anzitutto cosa pensava la gente del fatto di vivere in una città in gran parte sotto il livello del mare; poi, esplorare l’acqua del Caspio, un mare che molti si ostinano a definire lago, tutto punteggiato di derrick (le torri di perforazione) per la ricerca sottomarina dei preziosi giacimenti di petrolio e di gas naturale. Mi turbava infatti l’idea di una distesa di acque forse velate da impercettibili pellicole di olio, con migliaia di grosse siringhe metalliche disseminate qua e là e con i relativi aghi-pistoni che perforano i fondali; senza contare che il panorama dei sobborghi di Baku sarebbe stato completato (immaginavo) dall’abituale presenza – per questo tipo di attività – di tralicci arrugginiti, fabbriche dismesse e ciminiere su terreni avvelenati da scorie e rifiuti. Insomma: era tutto questo che avrei voluto vedere? Sì. Insieme ad altro ancora.
Baku è da sempre il più importante centro caucasico e quindi il luogo giusto per cercare di capire qualcosa sulle nazioni e popolazioni che si dividevano questo mare. Un tempo erano la sola Unione Sovietica (della quale l’Azerbaigian faceva parte) e l’Iran, a dividersi il Caspio; oggi se lo disputano più attori, con l’aggravante che gas e petrolio fanno a pugni con il delicato equilibrio di pesca e lavorazione dei pregiati storioni, oggi di preferenza allevati, specie quelli iraniani. Ma non è finita qui; dopo gli avvenimenti e i cambiamenti politici, che nel Caucaso sono aggrovigliati come i serpenti della Medusa, la regione continua ad essere quel fantasioso mosaico di genti e di aree abitate paragonabile a un gigantesco puzzle da risolvere con i giusti incastri: Baku e Azerbaigian, Armenia, Georgia, Iran; con la dissoluzione dell’orso Sovietico, sono arrivati il Turkmenistan, il Kazakistan. Altri territori avrebbero voluto rendersi liberi dal giogo sovietico, ma la nuova Russia l’ha impedito, quasi sempre con le cattive maniere. Restano tuttavia nomi che evocano terre ai più ignote e per conseguenza ampliano curiosità ed interessi; non solo Azerbaigian, alla fine, ma anche Adighezia, Circassia, Ossezia, Alania, Cecenia, Daghestan, Inguscezia e il buffo Cabardino-Balcaria, piccolissimo, che ospita la montagna più alta del Caucaso, quindi d’Europa: il Monte Elbrus (5642 metri).
Nei miei anni di viaggi, sono stato vicino a visitare l’Azerbaigian e Baku; era quasi certa una spedizione con Lucio Rossi nella terra degli azeri dell’Iran: Urmia con il suo lago morente, la splendida Tabriz per poi raggiungere – attraverso le terre dell’Azerbaigian persiano – la capitale sul Caspio; non se n’è fatto nulla, pare per difficoltà organizzative (e politiche) fra i due Paesi candidati. Comunque, nel corso di un precedente viaggio nell’antica Persia, avevo avuto modo di conoscere una guida di etnia azera (Rashid, che significa “coraggioso”) che mi aveva parlato a lungo di Baku e dei territori che la circondavano, densi di storia, avvenimenti e personaggi: Alessandro Magno, gli Albanesi caucasici che avevano imposto il cristianesimo come religione di stato nell’anno 667; quindi i Sasanidi di Persia, gli Arabi e la conversione all’Islam, Tamerlano e dopo di lui la nascita dello spirito Azero, consolidatosi in seguito con la dinastia dei Shirvanshakhi, autonomi dall’861 fino al 1539. Infine l’Impero Russo e la divisione del “grande” Azerbaigian di un tempo, fra russi ed iraniani.
Un famoso libro pubblicato nel 1937 (Alì e Nina) scritto dall’azero Kurban Said, racconta la storia d’amore fra il nobile musulmano Alì Khan Shirvanshire la principessa georgiana Nina Kipiani. La vicenda inizia nella capitale azera prima dell’invasione bolscevica del 1920 e si sviluppa attraverso il Caucaso: dalle rive del Mar Caspio alle montagne del Daghestan dove i due si sposano, passando poi per Karabakh, Georgia e Persia, per concludersi infine a Baku durante l’ultima guerra. Non solo una storia d’amore, questa, ma una testimonianza viva della sorte toccata alle differenti comunità dell’Azerbaigian (azera, armena, russa e georgiana) e del senso di appartenenza di questa terre all’Europa, già concreta all’inizio del ventesimo secolo. Ora a Baku spuntano i grattacieli firmati in mezzo al deserto e, fra pochi anni, ne è previsto uno che supererà i mille metri d’altezza. Ma quella che avrei voluto vedere era la Baku di Alì e di Nina.
Testo del Columnist Federico Formignani|Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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