Piccoleitalie
Ci sono luoghi che appartengono a chi scrive e autori che continuano ostinatamente ad appartenere ai propri luoghi. Marino Magliani, magnifico cantore di una Liguria aspra e sensuale, è uno di questi. Tra le voci più autentiche del nostro panorama letterario, ha dedicato romanzi e racconti alla sua terra, la Liguria, terra amata, ma anche immaginata con la distanza che solo la lontananza permette. Dall’Olanda, dove vive, ci ha inviato questo gioiello dedicato alla Valle in cui è nato e dove, periodicamente, ritorna. Uno scrigno di memoria, il suo, ricco di verità non altrimenti narrabili che attraverso la descrizione dei luoghi amati. “Premio Frontiere – Biamonti, Pagine di Liguria” con La Tana degli Alberibelli, autore di storie condivise con Quella notte a Dolcedo e di vicende a lui contemporanee in La spiaggia dei cani romantici, Magliani, in poche righe, riesce a sorprendere per la vivida nettezza di un paesaggio sentimentale e reale insieme che da suo come d’incanto si fa di tutti.
A cura di Manuela la Ferla
Tramonto in Val Prino
La Val Prino risale da Porto Maurizio, la cittadina di mare che assieme a Oneglia forma la città di Imperia. Il torrente Prino ha le sue sorgenti sotto il borgo di Villatalla, poi giunge a Prelà e a Dolcedo. La sua lunghezza, prima di trovare il mare in un borgo della città che si chiama proprio Prino, non supera la ventina di chilometri, curve comprese.La Liguria ha la forma di un boomerang e quando torna che la riprendi, dopo tanto, la Liguria è diventata un pettine, i denti sono le sue vallate, ermeticamente chiuse, la fuga è dove il torrente, in questo caso il Prino, trova la sua fine. Quando non scappavo ancora ero un bambino che guardava i tramonti, occhi sempre alti, perché in Val Prino si vive al fondo e si alzano gli occhi. Le vallate sono autentiche grotte, capivo, la luce arriva da una sola apertura, che è il pezzo di gabbia azzurra che ospita il sole e in quella luce dicono si intuisca il mare. Non nella luce stessa, naturalmente, ma nelle poche cose che trattengono la luce fino a tardi: le falesie ad esempio. Per guardarle dovevo mettermi di fronte alle fiancate a levante, le fiancate al domestico o all’aprico. Ero un bambino che guardava molto, e più guardavo e più mi intristivo. Anche se ciò che guardavo mi piaceva. Mi piacevano i mondi all’aprico della Val Prino, che sono mondi cotti dalle stagioni – e lo erano fin da allora che ero bambino – posti dove non fa in tempo a crescere nulla che il fuoco dell’estate distrugge e sgretola i pezzi di arenaria. L’uomo era intervenuto con possenti reti metalliche perché i blocchi di arenaria e pietra colombina non devastassero e franassero in strada. Guardando il fianco all’aprico, la caduta del sole non si vedeva. Da quel fianco, ciò che raccontava il tramonto era la linea dell’ombra che sale come un esercito dal torrente e scala le falesie. Per vedere dove si gettava il sole bisognava scendere di corsa le mulattiere del fianco selvatico,
oltrepassare il torrente e l’asfalto che lo costeggia, e risalire le pietraie al domestico, fermarsi a un certo punto, voltarsi alla cerniera che chiude Val Prino e alzare gli occhi prima che il sole affondi di là. Rimanere in quel punto di resa, che non significava ancora nulla, perché il sole scomparso – mi sembrava inghiottito dalla Francia, il posto dove mio padre lavorava nei ristoranti da maggio a ottobre – lasciava lungo la cerniera un orlo chiaro. D’estate era il momento in cui gridavano i rondoni, impazziti, sfioravano il paese laggiù, i canneti al fondo delle cose, dove si incrociano i torrenti. D’inverno no, l’orlo chiaro dura poco e i cancelli del giorno li chiudeva il pettirosso. Poi l’intera Liguria diventava una grotta, e rimaneva a lungo, fin dentro il sonno, e oltre, nella stanza di pietre, l’immagine del tramonto.
Marino Magliani www.instarlibri.it
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