Leggere serve ad arrivare dove non siamo (ancora) stati.

Il libro di Paolo Luigi Zambon è stato questo per me: entrare dolcemente in Oman, una terra completamente sconosciuta all’inizio, ma che con l’allungarsi dei chilometri percorsi in sella ad uno scooter, comincia a prendere le sembianze di un nuovo amico. Piano piano, l’Oman si svela attraverso le leggende che l’hanno resa una meta divina per immensi viaggiatori del passato, come Wilfred Thesiger e Harry S. Philby. Attraverso le parole dell’autore, poi, questa nazione della penisola arabica ti accoglie con un sorriso difficile da abbandonare; arriva spesso in punta di piedi al fruscio della dishdasha, l’indumento maschile tipico di questa parte di mondo; l’Oman ti pervade di atmosfere calde, molli e affrescate dal profumo di cardamomo. I suoi deserti cessano di essere non-luoghi ostili e, a tratti, diventano sinonimo di fratellanza: Yasser, Rahim, Abdullah, Sanish, Saif e molti molti altri accompagnano l’autore e la silenziosa compagna di vita e di viaggio Lindsay, lungo gli orizzonti di questo viaggio. Il libro di Zambon è un defluire continuo di inviti a ricorrenze importantissime nel mondo arabo, come i primi compleanni delle nipotine e i matrimoni dei fratelli, che accadono con la naturalezza tipica che si incontra spesso solamente quando si viaggia, quando si è altrove.
L’Oman, però, è anche una nazione problematica, in bilico continuo tra vecchie città abbandonate e fortezze mitiche, in regolare oscillazione tra una spinta tecnologica ingorda verso il futuro voluta e attuata dal sultano Qaboos e un tradizionalismo tendente alla propaganda islamica, in alcuni casi. L’Oman è anche intriso da una profonda malinconia: è un paese dove si viene accolti con amore da una famiglia che ha perso tutto durante la fuga da Raqqa, una Siria così vicina ma così lontana. L’Oman è una società basata anche sul lavoro durissimo di indiani, pakistani ed emigranti del Bangladesh: la maggior parte d’essi rivela all’autore d’essere arrivato su queste sponde alla ricerca di un’opportunità, per poter dare qualche risorsa a quei figli e famigliari rimasti al di là del Mare d’Arabia. Dal di fuori, invece, le attività di cui si occupano tendono ad apparire come espiazioni di atroci peccati in una terra dove, a parte alcune rarissime eccezioni, non sono nemmeno padroni dei loro passaporti. Forse sono proprio i racconti di questa marea di manovali e contadini e allevatori, anime accovacciate lungo i marciapiedi, a rimanere più conficcati nel cuore alla fine del libro. Di un amico ovviamente si accetta e si ama tutto: allo stesso modo, più si avanza con Paolo e Lindsay e il loro scooter sulle strade omanite, più ci si ritrova a voler bene a tutti questi incontri; ci si scopre a non voler lasciarsi indietro quei microscopici paesini, pugni di abitazioni distribuite tra i monti e le sabbie del deserto; si sa che ci mancheranno tutte quelle pantagrueliche mangiate a base di montone e riso profumato. È dura mollare una storia come quella di Paolo Zambon, ma come diceva Kerouac, “ci si deve proiettare avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo”.
Libro: Viaggio in Oman di Alpine Studio – Autore: Paolo Luigi Zambon
Testo di Vanessa Marenco |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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