Asia da scoprire: Timor Est tra storia e calcetto

Prima tappa del viaggio alla scoperta dell’Asia: sconosciuto al turismo di massa, il Timor Est condivide con l’Indonesia la stessa isola, ma non la fama. Dopo una terribile storia di dominazioni straniere e guerre troppo poco raccontate, oggi è il paese più povero dell’Asia, ma è uno stato libero. Angelo Zinna ce lo racconta.

La scelta di visitare il Timor Est come prima tappa asiatica del viaggio nasce principalmente dall’incognita che questo piccolo Paese all’estremità del Globo rappresenta nella geografia mondiale. “Dov’è il Timor Est? Che ci vai a fare?” Sono state le domande più popolari. Io per primo non smettevo di chiedermi lo stesso, fino a convincermi ad andare di persona a cercare quelle informazioni che sulla carta ancora sono rare. Capire l’evoluzione di questo piccolo territorio negli ultimi vent’anni significa essere pronti a sorprendersi di quanto una storia tanto triste sia stata così di rado raccontata.

La lunghissima occupazione europea ha formato quello che in epoca moderna è diventato il Timor e i timoresi, uno dei pochi popoli cristiani in Asia che per molti versi hanno mescolato usi e costumi mediterranei con quelli asiatici. La lingua ufficiale è ancora oggi il portoghese, seguita da quella indigena del Tetum e camminando per le strade di Dili non ci vuole molto per incrociare una partita di calcetto. C’è chi gioca con due scarpe, chi scalzo, e chi con una sola. L’indipendenza vera e propria è arrivata soltanto nel 2002, ma il processo per raggiungerla ha inizio circa cinquecento anni fa. Il primo testo in assoluto riguardante il Timor Est fu concepito da un italiano, Antonio Pigafetta, che nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo, scritta nel 1522 durante la spedizione portoghese condotta inizialmente dallo sfortunato Magellano, tratteggia un primo ritratto di questa parte del Pacifico. La ricchezza di legno di sandalo, miele e soprattutto di schiavi, sembrano essere le attrattive principali che spinsero il governo portoghese a prendere possesso di questa ricchissima terra che fino ad allora era poco più che una fitta giungla abitata da oltre sessanta tribù.

Quattrocento anni, però, non sono riusciti a segnare questo popolo come hanno fatto gli ultimi quaranta. Il montare dei primi ardori politici e la voglia d’indipendenza arrivano soltanto nella seconda metà del ‘900 ed è negli anni ’70 che il Portogallo prende la decisione di lasciare la sua colonia in balia di sé stessa. Un errore, se vogliamo, drammatico. La debolezza di un paese che mai prima d’allora è stato lasciato libero di autogovernarsi ha come immediata conseguenza l’assalto da parte chi in questa ricchezza ci vedeva il futuro. L’incontro del Presidente americano Ford con il Presidente indonesiano Soherto è un episodio che tutti ricordano. Soherto, il 5 dicembre del ’75, descrive a Ford il Timor come un pericoloso territorio comunista e alla proposta di invasione Ford risponde che l’attacco “Sarebbe stato capito”. Il 7 dicembre l’Indonesia invade il Timor Est con armi americane. Una delle più grandi armate asiatiche da inizio al silenzioso massacro contro l’esercito popolare di circa 2.500 uomini messo insieme dal partito pro-indipendenza FRETILIN. A Balibo gli unici giornalisti stranieri presenti sul territorio furono uccisi a sangue freddo il giorno dell’invasione. Durante i primi quattro anni di occupazione si stima che il 25% della popolazione sia scomparso nel nulla e nonostante questo i primi sedici anni di guerra sono andati avanti nel più totale silenzio mediatico, durante il quale Australia e America si accordavano con l’Indonesia sull’utilizzo delle risorse petrolifere timoresi.

Fu necessario aspettare il 1991 per far sì che i riflettori fossero puntati da questa parte. Reso noto come il massacro di Santa Cruz, la sparatoria che uccise una serie di protestatori pacifici durante una cerimonia al cimitero di Santa Cruz a Dili venne casualmente filmata e riuscì a superare i confini indonesiani raggiungendo gli occhi del mondo. La terribile storia del Timor divenne finalmente conosciuta e le cose cominciarono a muoversi in suo favore. In otto anni arrivò la prima elezione democratica, dando un primo accenno di libertà, ma come hanno dovuto imparare i timoresi non basta dichiararsi indipendenti per esserlo veramente. “Ancora una volta, la guerra sembra essere l’inespugnabile piaga del Timor e in molti ne saranno traumatizzati per sempre. Una tristezza profonda è ricaduta su tutte le case, il Timor è stato risucchiato nell’oscurità di una guerra amara”, racconta il diario di un osservatore contemporaneo. Furono necessari altri tre anni di guerra civile per trasformare il Timor Est in uno stato libero.

Oggi, dall’indipendenza sono passati dieci anni. La gente qui è in pace, e nonostante la posizione di paese più povero dell’Asia, l’impressione è che le persone si rendano conto che il peggio è passato. C’è la fame, l’educazione, la salute, è vero, ma da adesso la strada è in discesa. A Dili il traffico, la confusione, non è quella delle altre capitali asiatiche. Non è Hanoi, o Kuala Lumpur e la gente si ferma ancora per farti attraversare la strada, qualche volta. C’è chi ti sorride, chi ti osserva, chi ti studia. Il turista qui non ha ancora una funzione ben precisa. Nessuno prova a venderti niente, tutti aspettano la prossima mossa, cercano di capire cosa ci fa qui quest’uomo bianco. La sicurezza, di cui si dubita prima della partenza, mi è stata confermata fin dall’aeroporto. Terezinha, stupita che qualcuno andasse in visita al suo paese mi dice, imbarazzata: “Il Timor è una terra ricchissima, le banane le buttiamo via, il caffè è il più buono del mondo. Non ti spaventare però quando lo vedi, è molto diverso da dove vieni tu”. Come a volermi preparare per ciò che mi aspetta. Ed è vero, è molto diverso da dove vengo io. E se le strade polverose non hanno ancora attirato la massa di viaggiatori che si sussegue nel resto del sud-est asiatico, le persone a chi arriva cercano di dare il benvenuto. “Vieni a casa mia, vieni per pranzo un giorno di questi” – mi invita la mia nuova amica settantenne. Lei dalla guerra è fuggita prima in Indonesia, poi in Portogallo e infine in Australia: “Volevo avvicinarmi il più possibile a casa”.

“Qual è il rapporto tra voi e gli indonesiani?” le chiedo prima di dividersi, curioso di sapere come sia condividere un’isola con chi in passato è stato così oppressivo. Lei mi sorride, in un espressione che dice tutto. “Oggi si inchinano, fanno gli amici.” Mi spiega. “Sai, io spenderei meno facendo scalo a Bali. Però preferisco spendere qualcosa in più…”

Testo e foto di Angelo Zinna – Exploremore

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