L’architetto Jacques Lemercier vive a Roma dal 1607 al 1614, a metà degli anni Venti giunge Georges de la Tour. Soggiornano in città il pittore Sébastien Bourdoné (1634-37) e il decoratore Charles Le Brun (1643-45). Valentin de Boulogne, artista caravaggesco, si stabilisce a Roma e vi muore nel 1632. Simon Vouet, reduce da un viaggio a Costantinopoli, approda a Venezia nel 1613 ma l’anno successivo è già a Roma. Sono testimonianze evidenti della forza di
attrazione che la Città Eterna esercita in questi anni. Non solo. Con la creazione dell’Académie française, fondata da Richelieu nel 1635, inizia un processo istituzionale che stravolgerà i sistemi di insegnamento che presiedono alle arti e alle scienze. Nel 1647 infatti Mazzarino fonda l’Académie de peinture et sculpture. L’acme di questo programma si raggiunge nel 1671 quando Colbert istituisce l’Académie royale d’architecture. Il viaggio in Italia nel XVII secolo si trasforma radicalmente: non è più iniziativa privata di un artista o di un gentiluomo ma diviene programma di Stato. L’istituzione nel 1666 dell’Accademia di Francia a Roma è l’atto più importante dell’idea che vede nell’Italia la fonte a cui bisogna necessariamente attingere. Tra i viaggiatori francesi un posto di privilegio spetta a Montesquieu che in Italia acquista e matura un’attitudine da fine amateur verso l’arte: i suoi giudizi restano legati ad un gusto classicista che trova in Raffaello per la pittura e in Michelangelo per l’architettura e la scultura il loro apogeo. Ma non è meno sensibile nel valutare la
grandezza di Bernini, di Pietro da Cortona e di Borromini a cui vanno le sue preferenze. Montesquieu giunge in Italia nell’agosto del 1728, proveniente da Vienna e lascerà il Paese un anno dopo. Trascorre un mese a Venezia, dieci giorni a Genova, venti giorni a Milano. Un mese e mezzo a Firenze, nei due soggiorni a Roma passa più di tre mesi, meno di quindici giorni a Napoli. A Bologna, sulla via del ritorno, si ferma una settimana. E nel suo Voyage en Italie illustra il modo più idoneo per conoscere una nuova città: “Quando arrivo in una città, salgo sempre sul più alto campanile, o sulla torre più alta, per avere una veduta d’insieme, prima di vedere le singole parti; e nel lasciarla faccio la stessa cosa, per fissare le mie idee”. Le note di Montesquieu non seguono un ordine topografico, il suo è un testo diverso dal tradizionale diario di viaggio, annota le cose che lo interessano e che sente il bisogno di discutere o di ricordare così come gli vengono in mente. Spesso riferisce opinioni altrui e riporta il nome di chi le dice, talvolta non distingue le une dalle altre. Passa da valutazioni così
particolari ad altre di carattere generale sullo stato di abbandono dell’ambiente fluviale: “credo siano stati gli uomini ad aver guastato i fiumi, perché pensando soltanto a prevenire le inondazioni, si sono sempre occupati di alzare le sponde dei fiumi, invece di dragare il letto”. E nonostante quei fiumi abbiano grande importanza per il commercio “Venezia è in una situazione più vantaggiosa di Genova, di Livorno e di altre città, perché nelle altre città bisogna portare le merci per via di terra, sia attraverso l’Italia, sia attraverso la Germania, mentre a Venezia le portano da ogni parte sul Po, che attraversa l’Italia, e sull’Adige che sale verso la Germania; il che fa risparmiare molte spese”. Mostra una notevole competenza sulla situazione dei porti: Livorno, Genova, Ancona, Napoli. “Il porto di La Spezia, cioè tutto il golfo, è una delle cose più stupende che ci siano in Italia. Il golfo ha quindici miglia di circuito” proseguendo la descrizione con tecnica minuziosa e disegnando anche una mappa dettagliata. Le attrezzature del porto (lanterne, moli, arsenali,
darsene) sono meticolosamente rappresentate come pure le fortezze di cui gli italiani, annota, sono i più grandi costruttori dell’Europa tutta. Il primo castello che visita durante il suo viaggio è lo Sforzesco di Milano, poi quello di Novara. Le fortificazioni di Lucca gli appaiono particolarmente suggestive oltre che solide: “i bastioni sono alberati, con un bellissimo effetto. È la passeggiata della città, perché i sovrani tranquilli non sono affatto gelosi delle loro fortificazioni”. A Napoli poi si rivolge alla roccaforte di Sant’Elmo: “da quando hanno pensato di costruire fortezze dentro la città, non si ha più bisogno di avere popoli fedelissimi: li hanno resi obbedienti. Perciò prima scoppiava una rivoluzione al giorno, come in Italia. È quasi impossibile che i Napoletani si ribellino, con le cinque cittadelle che hanno”. Gli altri interessi di Montesquieu sono l’agricoltura, la coltivazione dei campi e le rendite che si ricavano da ciascuna coltura. Non un’accortezza dunque esclusivamente paesistica, com’è ricorrente in tanti viaggiatori contemporanei, ma un’attenzione di tipo economico che forma un vero e proprio
repertorio statistico che si arricchisce anche di puntigliose valutazioni demografiche. La qualità della terra poi non gli resta indifferente: muovendosi da Roma giunto nel territorio campano osserva: “quello che ho visto finora del Regno di Napoli è migliore e meglio coltivato del territorio del Papa: terre arate, vigne, oliveti, qualche arancio”. Attraversando la Lombardia invece scopre l’incanto dei paesaggi lacustri e raggiunte le rive del lago Maggiore visita le isole Borromee: “ciascuna ha un perimetro d’un quarto di miglio circa. Sono terrazze poste le une sulle altre, con i muri coperti di aranci, di limoni, di cedri. Ce n’è una estremamente curata: l’altra è più rustica, e tutto risponde a questa rusticità… Non è possibile vedere qualcosa di più bello dell’isola che si chiama la Bella” con una lunga descrizione della famosa villa, delle sue stanze, delle opere che vi si possono ammirare, della sua posizione sul lago e della sua tipologia edilizia a terrazze.
Testo: Giovanna Scatena
Della stessa serie:
1 – Un tuffo nel passato: l’Italia del Grand Tour
2 – Gli inglesi e il Gran Tour in Italia