Sicilia, Siracusa. L’incanto di una città dimezzata di Paolo Di Stefano

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Siracusa: nella parte orientale della Sicilia è, con Noto e Ragusa Ibla, rara perla tra le perle. Paolo Di Stefano, possiede da sempre il dono di riuscire a scrivere di luoghi, anche lontani da sé, come se li avesse davvero sfiorati con la propria esistenza. È il caso del recente: La catastròfa (Sellerio), dove documenti e fotografie in bianco nero si animano di vita vissuta. Similmente qui, luoghi altrimenti noti e tracce non celate della propria vita si saldano in una geografia sentimentale in cui è bello potersi rispecchiare. Vista dalle cittadine della sua larga provincia, Siracusa era al tempo la «città babba», priva della capacità scaltra di Catania e dell’opulenza festosa di Taormina, baluardo sonnolente della Magna Grecia circondata da asfissianti ciminiere. E ora che da quel sonno secolare si è finalmente destata, ecco che la si può scoprire come nuova, avvolta da nitido, solare biancore.

Manuela La Ferla


L’incanto di una città dimezzata





Siracusa
. Per noi avolesi era la Città, con le sue antichità greche e romane, con i viali, soprattutto. Viale Teocrito, corso Gelone sono madeleine dell’infanzia. I siracusani con villa a Fontane Bianche, poi, avevano la dignità di una borghesia che noi, figli e nipoti di contadini e pastori, potevamo solo ammirare da lontano. Quando si tornava d’estate al paese, da emigranti, la latomia del Paradiso era una visita obbligata, come andare a salutare i parenti. Si passava il pomeriggio fra Teatro greco, latomie e Anfiteatro romano. Per i bambini che eravamo, l’apice dell’eccitazione era l’acustica della gigantesca grotta scavata dal tiranno Dionisio nella roccia per sentire i discorsi dei suoi prigionieri: questa era la leggenda, cui Caravaggio pare abbia aggiunto la suggestione della metafora (Orecchio). Bastava raspare con un piede contro il suolo perché il rumore rimbombasse nel vuoto alto 23 metri. Lì abbiamo portato anche i nostri figli, che sorprendentemente vi trovavano il nostro stesso fascino.


Seconda tappa: la Fonte Aretusa, con i suoi enormi papiri. Anche qui, era la leggenda ad attrarre la nostra ingenuità. Restavamo incantati a guardarla dall’alto, cercando nelle acque melmose un segno dell’amore ardente che unì la ninfa e Alfeo. Mio padre, professore liceale di lettere classiche, accompagnava con il suo racconto sempre uguale la nostra rinnovata curiosità. Terzo e ultimo appuntamento: il Santuario della Madonnina (sì, con il diminutivo) delle Lacrime, che allora era una specie di tendone da circo nel cuore della città e da trent’anni è un altissimo cono in cemento. A un certo punto le preghiere di mia madre si rivolsero anche a lei perché guarisse mio fratello dalla leucemia, ma non furono ascoltate. Da allora, per ripicca o piuttosto per disperazione, decidemmo di saltare la tappa del Santuario. Corso Gelone era la passeggiata finale, ma solo se avanzava tempo. Mi ricordo che si andava anche, ogni tanto, al mattino, ai mercati Generali, lungo la Provinciale all’entrata della città, dove mio nonno si divertiva a tastare con insistenza pesche, albicocche e pomodori.

Ortigia, quella che oggi è l’attrazione maggiore della città (percorsa da frotte di turisti tedeschi, inglesi e francesi che vi prendono casa), per noi quasi non esisteva. Sapevamo solo che alla fine della città c’era un’isola, collegata alla terraferma da un ponte moderno, che per la sua forma prendeva il nome dall’equivalente greco di «quaglia». Quel ponte non bisognava attraversarlo: i miei genitori dicevano che l’isola era abitata soltanto da grossi topi e da ladri. Con l’età avremmo saputo che oltre ai ratti, c’erano anche famiglie di pescatori con le nasse appese ai muri esterni e puttane. Ricordo che, adolescenti, un tardo pomeriggio estivo la raggiungemmo in vespa, all’insaputa di tutti, e ne fummo cacciati immediatamente sotto la minaccia di scope e sedie alzate al cielo da uomini piuttosto incavolati. Avevamo accostato un paio di belle ragazze che salivano per vicoli ammuffiti e semibui. Anche di Caravaggio e di Antonello da Messina non sapevamo niente. Siracusa rimase per anni una città dimezzata.

Paolo Di Stefano

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