di Gabriella De Fina
A cent’anni dalla nascita, Thor Heyerdahl, l’uomo che nel 1947 attraversò il Pacifico su una zattera di balsa, è ancora un mito. Il suo nome è simbolo di avventura, ma anche di ricerca scientifica e amore per l’Uomo e per la Natura. Il suo spirito libero e le sue imprese per mare e per terra continuano a ispirare i viaggiatori di tutto il mondo.
Ci sono uomini che sembrano caduti sulla terra direttamente dal cielo, per illuminare l’umanità e costringerla con la propria audacia a compiere un balzo in avanti sulla strada della conoscenza. Thor Heyerdahl, l’uomo del Kon-Tiki, il grande esploratore norvegese di cui quest’anno è caduto il centenario – celebrato perfino da Google che il 6 ottobre, giorno della sua nascita, gli ha dedicato un doodle – è senza dubbio uno di quelli.
Nel 1947, con un equipaggio di 5 persone, senza alcun supporto tecnico a parte una radio, varò una rudimentale zattera di balsa dal porto di Callao, in Perù, diretta in Polinesia. La zattera, oggi esposta al museo Kon-Tiki di Oslo, venne chiamata Kon-Tiki, in onore della preistorica divinità solare che accomunava gli indios sudamericani agli indigeni polinesiani (Con Citi per i primi, Tiki per i secondi), e che tanta parte aveva avuto nell’elaborazione della sua teoria. Scopo della spedizione che tutti, compreso il mitico National Geographic che gli negò i fondi, consideravano un suicidio collettivo, era di dimostrare che in epoche remote i popoli usarono il mare come ponte di comunicazione fra le loro civiltà, attraversando gli oceani su primitive imbarcazioni di balsa e di papiro.
La prima intuizione gli era sorta mentre nel 1937 viveva un anno da selvaggio con la sua novella sposa, Liv, a Fatu-Hiva, un’isola sperduta dell’arcipelago delle Marchesi; un viaggio a lungo preparato con l’intenzione di studiare flora e fauna di quei luoghi (Thor era biologo), ma anche con l’idea di una immersione totale in quella natura di cui per tutta la vita, da ecologista qual’era, si sentì profondamente parte. Dopo aver dato appuntamento al comandante della nave che li aveva portati fin lì all’anno successivo, Thor e Liv erano sbarcati a Fatu-Iva. Aiutati dagli indigeni si erano costruiti una casa di foglie di banano e canne, avevano imparato a cogliere la colazione dagli alberi e a bere nei cocchi divisi a metà, a lavarsi in una pozza d’acqua e a difendersi dagli animali.
A Hiva Oa, la capitale delle Marchesi, la giungla era disseminata di enormi teste di pietra, Tiki, ricordo di un dio Sole che la leggenda dei cantastorie locali attribuiva a uomini bianchi venuti da oriente. La scoperta di un graffito che rappresentava una barca a remi, con poppa e prua molto alte, ben diversa dalle piroghe monoxili dei polinesiani, l’analisi delle correnti che soffiavano da oriente e la presenza della patata dolce, che gli indigeni chiamano Kumara come gli indios sudamericani e che non poteva essere stata trasportata se non dall’uomo, convinsero Thor della possibilità di una ancestrale migrazione che dal Sudamerica fosse arrivata in Polinesia prima di quella proveniente dall’Asia. Ma per dare sostegno alla sua ipotesi Thor deve dimostrare che una un’imbarcazione di balsa può attraversare l’oceano Pacifico. E ci riesce. Dopo 101 giorni di navigazione il Kon-Tiki raggiunge le isole Tuamotu in Polinesia.
L’ultima spedizione, quella del Tigris, fu destinata all’Oceano Indiano. Lo studio della civiltà Sumerica, infatti, aveva portato Thor a supporre contatti tra quella cultura e le culture della valle dell’Indo. E la lettura dell’epopea sumerica Gilgamesh, in cui l’eroe viaggia al di là del mare alla ricerca di una terra degli antenati, lo aveva convinto che dietro la leggenda si nascondesse un’altra tappa della grande migrazione che dall’India portava in Mesopotamia. Questa volta si trattava di costruire una barca di giunco, pianta che cresce alla foce del Tigri e dell’Eufrate.

Il Tigris salpa dallo Shatt el Arab nella primavera del 1979. Durante una sosta a Barhein per il rammendo della vela, Thor visita gli scavi che l’archeologo inglese Bibby sta conducendo nella zona. Questi è convinto che la sterminata necropoli rinvenuta altro non sia se non la famosa terra degli antenati citata dalla tradizione sumerica. Per Heyerdahl, è la quadratura del cerchio. Il Tigris risalirà la Penisola Araba attraverso l’Oceano Indiano fino alla valle dell’Indo, e sarà dato alle fiamme dallo stesso Heyerdahl in Somalia, dove era attraccato e da dove a causa delle guerre non era più potuto ripartire, per protesta contro tutte le guerre.
Ma le imprese di Heyerdahl non si limitano ai viaggi per mare. A lui, che metteva le tende dovunque vi fosse un mistero da chiarire, si devono scoperte archeologiche di fondamentale importanza per tutta l’umanità. Prime fra tutte quelle che riguardano l’Isola di Pasqua, dove Thor si trasferì per la prima volta nel 1955, insieme alla seconda moglie Ivonne, per svolgervi i primi scavi sistematici. Lì sfatò il mito corrente dell’impossibilità degli uomini primitivi di scolpire e trasportare statue di dimensioni gigantesche come quelle dei moai, riuscendo a far costruire un moai di 12 tonnellate a sei indigeni con l’uso di soli strumenti litici; scoprì che le gigantesche teste seppellite nel tufo, vestigia di una antica dinastia “delle orecchie lunghe” di cui gli isolani si dichiaravano discendenti, erano in realtà statue a figura intera.
Heyerdahl fu un grande cacciatore di piramidi, ricordo di un culto ancestrale universale di un dio solare diffuso in tutto il pianeta e, dunque, emblema di quella civiltà trasversale dell’antichità di cui fu strenuo sostenitore. Nel ’90, con l’ultima moglie Jaqueline, si trasferì per quattro anni a Túcume, in Perù, il più grande complesso piramidale del mondo, dove lavorò insieme al grande archeologo Walter Alva. A Tenerife, che scelse come sua ultima residenza (anche se tornò a morire nella amata Colla Micheri, in Liguria, dove sono sepolte le sue ceneri, che dal ’58 era stata rifugio familiare e pausa di studio e riposo tra un viaggio e l’altro), organizzò gli scavi nell’area abbandonata delle piramidi. In Sardegna studiò la ziggurat di Monte D’Accordi, una struttura a gradoni del tipo mesopotamico; in Sicilia, a ottantacinque anni, due anni prima di morire, con lo stesso entusiasmo di sempre, fece quella che può essere considerata la sua ultima scoperta: la piramide di Cirummeddi a Pietraperzia (En), fino ad allora considerata un mucchio di pietre accantonate dai contadini nella bonifica di terreni da coltivare.
L’uomo Heyerdal ha vissuto appieno la sua vita sulla terra – tre mogli, cinque figli, fama, soldi e riconoscimenti – ma non ha mai perso il contatto con il cielo. Il suo sguardo azzurro, che sembra riflettere l’immensità dell’oceano, è rimasto fino all’ultimo quello del bambino curioso e innocente che si accende di passione davanti ad ogni nuova scoperta. Amico di Gorbaciov e Fidel Castro, accolto in pompa magna dai capi di Stato, riservava la sua ammirazione a pescatori e contadini. Insignito di decine di lauree honoris causa, rifiutava le offerte di cattedre universitarie. La sua mente superava le barriere degli accademici, che assicurano che tutto è già scritto, e si interrogava sui due milioni di anni prima di Cristo a cui risale la vita dell’uomo sulla terra. A chi voleva ingabbiarlo in una definizione, archeologo, navigatore, scrittore, ecologista, antropologo, regista (avventuriero, per i suoi detrattori), rispondeva che la specializzazione è un limite, perché impedisce agli uomini di avere una visione d’insieme. Thor Heyerdahl amava l’umanità, concepita come un’unica razza animata dagli stessi afflati e bisogni, e la natura, che considerava massima espressione divina, come dimostrano queste sue parole: “Non si può fare a meno di cogliere la presenza di Dio in certe notti di luna in mezzo a un oceano silenzioso, parlando in chissà quale lingua con uomini sconosciuti che proprio in quel momento diventano i tuoi amici più cari, il tuo appiglio, la cosa più importante che possiedi. Allora ti accorgi che Dio c’è”. ?gdf
Foto Walter Leonardi| Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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