
Il mio personale contatto con il Mozambico è decisamente datato: di nessuna rilevanza turistica ma di discreta esperienza umana. Sono transitato infatti da Lourenço Marques, proveniente dal Madagascar,verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando lavoravo per la Radio della Svizzera italiana. Il documentario radiofonico che avevo proposto e che dovevo realizzare riguardava un tema che la direzione aveva ritenuto degno di essere sviluppato: quello relativo a una certa categoria di persone che – moda del momento – si appoggiavano ad agenzie o persone “specializzate” nell’aiutare chi dall’Italia voleva sparire, dileguarsi (letteralmente) senza lasciare alcuna traccia di sé. Gente che avrebbe abbandonato dall’oggi al domani affetti familiari e ogni tipo di legame con persone e cose dell’ambiente nel quale viveva; spesso, questi abbandoni improvvisi erano motivati da situazioni economiche o sociali compromesse, pressoché impossibili da recuperare. Per molte di queste persone c’era Osvaldo (nome fittizio) che organizzava – in un arco di tempo di circa un mese – ogni cosa: esame approfondito della situazione degli interessati, documenti, trasferimento di beni, sistemazioni provvisorie e/o definitive nei nuovi paesi, garanzia di assoluta non tracciabilità. Io avevo accompagnato Osvaldo prima in Madagascar e poi in Mozambico dove lui aveva “sistemato” due persone (un ingegnere bergamasco e un titolare d’azienda cremonese); avevo parlato con l’organizzatore, con i collaboratori della sua agenzia e con i “fuggitivi” per sapere come vivevano, perché avessero assunto decisioni così drastiche, testimoniando nel contempo i primi passi della loro nuova vita in terre tanto lontane. Osvaldo non era il solo ad organizzare questi viaggi senza ritorno (per gli altri); solo a Milano c’erano una decina di agenzie che se ne occupavano. Una volta arrivati – sono assolutamente sincero – avevo visto poco sia di Antananarivo che di Lourenço Marques, se non quartieri periferici dove i due protagonisti avevano trovato una prima sistemazione. In compenso, il documentario di queste due “storie” mi era riuscito proprio bene: incredibile, avvincente, con molti lati intriganti e misteriosi; tutto sommato: umano.
Secondo e più gratificante aggancio con il Mozambico nel 1999, durante un viaggio in Spagna per un gruppo di giornalisti europei che scrivevano di turismo. In questa occasione ho conosciuto Vitor Simoes, collaboratore della rivista Volta ao Mundo di Lisbona, città in cui risiedeva. A quel tempo non avevo avuto ancora occasione di visitare il Portogallo (avevo detto al collega) ma ero stato – per brevissimo tempo – in un paese legato alla cultura e in parte alla lingua portoghese: il Mozambico. Vitor si era subito illuminato e aveva iniziato a raccontarmi di questa terra, nella quale era nato nel 1968, quando la capitale si chiamava ancora Lourenço Marquez, dal nome del commerciante portoghese che aveva esplorato la baia de Lagoa nell’anno 1544. La capitale era poi divenuta Maputo nel 1975 con l’indipendenza del Paese e Vitor era rimasto mozambicano sino ai diciott’anni quando il papà, funzionario governativo, aveva deciso il ritorno a Lisbona con l’intera famiglia. Era stato allora il mio turno di chiedere qualcosa su questa terra, su questa città, dato che l’avevo solo “sfiorata”.Vitor conservava un ricordo vivissimo dei suoi primi anni in Mozambico; anzitutto il contatto continuo e vivificante con una natura splendida; le amicizie, naturalmente, che avevano contribuito a formare la sua personalità e le prime passioni giornalistiche, quando raccoglieva notizie per la AIM, l’Agenzia di Informazioni del Mozambico. Poi la formazione scolastica (completata con l’Università al ritorno in Portogallo) che gli aveva consentito di conoscere – per mezzo della lettura e delle testimonianze di colleghi già affermati – gli scrittori locali di lingua portoghese e ronga, la parlata locale. In questo modo, per mezzo di Vitor, ho sentito parlare degli scrittori del Mozambico per i quali letteratura e nazionalismo rappresentavano il veicolo di promozione per dar voce a una nuova consapevolezza nazionale. Vitor ricordava con nostalgia la rivista O Brado Africano (il ruggito africano) che ha dato spazio a molti scrittori e dalle e-mail che mi ha inviato per alcuni anni – complete di brevi note biografiche – ho recuperato qualche nome: João Albasini, Estácio Dias, João Dias e Rui de Norhona, uno dei padri della poesia mozambicana e il primo autore a mescolare portoghese e ronga; quindi Noémia de Sousa, madre fondatrice della Moçambicanidade, il nazionalismo culturale degli anni Cinquanta e José Craveirinha, riconosciuto poeta nazionale. Non ho più rivisto Vitor Simoes, ma un po’ di Mozambico è rimasto in me, anche grazie alla lettura di scrittori postumi alla sua permanenza in quel Paese: la poetessa Paulina Chiziane e il mozambicano “bianco” e forse più famoso: Mia Couto, efficace narratore e incisivo poeta. A parziale compenso della quasi nulla conoscenza diretta del mio “antico” viaggio.
Testo del Columnist Federico Formignani|Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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