Eritrea. I tesori del Medeber


Sembra un piccolo girone infernale. Nella fucina del diavolo, il grande mercato di Medeber, si ricicla di tutto. E al calore della fiamma ossidrica gli oggetti cambiano forma, apparenza e scopo. In una salvifica rigenerazione.


Al grande mercato del Medeber si può trovare di tutto. Antico caravanserraglio, oasi nelle interminabili vie di primordiali trasporti terrestri, resta il più grande luogo del riciclo del tormentato e poverissimo Corno d’Africa. Espone mille povere cose, riattate con la fantasia della miseria e dell’isolazionismo. Nasconde in antri scuri ed impraticabili, se non dal lavoro minorile, pezzi unici reduci del passaggio, su questa terra che non sembra ancora stanca, di tanti popoli e delle loro culture. E anche delle loro inciviltà.


In Eritrea, il tempo sembra essersi fermato. E non solo nelle botteghe del Medeber. Vista da lontano, la dorata terra dei ciurù, liberi e onnipresenti fringuelli rossi, sembra solo essere sfruttamento e arretratezza, ma chi ci vive ti racconta che le aspirazioni di libertà non si fermano con la forza. Né quella degli invasori, né quella di governi poco democratici. E la restrizione può diventare una risorsa. E allora, con tutte le sue contraddizioni, conosciuto da vicino è un paese povero ma con popoli dignitosi e operosi, che non chiedono elemosine e sanno conservare una discreta economia e un patrimonio culturale unico al mondo. Un po’ come Cuba. E ci si può domandare se interferenze, non sempre disinteressate, potrebbero solo distruggere questo equilibrio così fragile. Ma che funziona.

Così la piccola “Terra Rossa”, situata come un cerino nell’ “infiammabile” corno del rinoceronte Africa, è la rappresentazione del suo mercato a cielo aperto. Confini mutevoli e tante volte violati. Come le mura del caravanserraglio. Tenuta nel ventre dalla sorella Etiopia e poi dominio ottomano, egiziano e italiano. La stessa confusione che regna nel mitico Maedeber. Mille oggetti, mille provenienze. E la ricerca faticosa di un’identità.


Che arrivava dalle genti di “passaggio”, dai foresti. L’Italia, nel lontano ottocento, invadeva, perdeva e poi scriveva trattati di pace. Ridisegnando linee e puntini di un puzzle geopolitico, che non ha mai voluto rendersi conto che,  in quei piccoli segni fatti sull’enorme mappamondo mondiale, calpestava diritti, calpestava la vita di tanti esseri viventi. E così la grande “madre “ Etiopia, lasciava libera la piccola Eritrea Italiana. Ma sulle semplici bancarelle del riciclo, anche il mercato dei potenti vuole mettere le sue merci. E con il potere non puoi sempre scegliere la democrazia. E allora si passa sotto la forca del fascismo italiano, poi l’occupazione degli alleati nell’ultimo conflitto mondiale e quindi gli inglesi. E poi ancora inglobata dall’Etiopia e nel maggio 1993 forse, finalmente, indipendente. Ma come nel vivissimo Medeber, il lavoro pro o contro l’indipendenza, pro o contro la libertà, non finisce mai. La guerra dei confini con la matrigna Etiopia infatti non si è mai chiusa. Come il mercato della morte e del dolore.

E come sono facili da esporre e riciclare questi due articoli. Le vecchie pallottole si usano per fare pettini e rasoi. Lì in mezzo a un caos primordiale. Schivando le scintille fredde di mille fiamme ossidriche e la polvere rossa e urticante della lavorazione delle spezie. Al decrepito caravanserraglio si lavora la vita e si ricicla la morte. Nulla si perde in questo luogo mitico.

E allora sulle bancarelle di questa terra si possono trovare ben nove gruppi etnici, multilingue e multiculturali, svariati “credo”, il tutto immerso in una natura che non riesce né a nascondersi né a riciclarsi. Ingenuamente, anche lei, è in bella mostra, con isole tropicali che il turismo, per grazia degli dei, non conosce, altopiani fertili e zone desertiche tra le più ostili all’uomo. Che, anch’esso, vuole mostrare le sue  magnifiche realizzazioni architettoniche in città magiche e irreali. L’Asmara futurista e la candida e malinconica Massawa. Ferme nel tempo ad esporsi, compendi di storia, di arte ed atrocità. Pronte, come i tanti Eritrei delle guerre trascorse, a morire. Morire in una lenta e dignitosa decadenza, che ne esaspera il fascino e, paradossalmente, le mantiene intatte.

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