Sapori del Vulture

Itinerario nella Basilicata rurale, alla scoperta dei suoi castelli, dei suoi borghi e dell’Aglianico del Vulture, un vino rosso di grande raffinatezza e corpo che guida la Lucania verso un vero e proprio rinascimento.

A raccontare che il signor Botte torna ad abitare nella città di Barile, verrebbe da pensare a una freddura. E invece non c’è niente da ridere. Perché quella del signor Botte non solo è una storia vera, ma è il sintomo di un’inversione di tendenza. E di una rivincita. La tendenza è quella dell’emigrazione: la gente che un tempo se n’è andata dalle zone più depresse della Lucania, oggi ritorna. E non solo perché lontano ha fatto fortuna, ma perché oggi la fortuna è qui, nel paesello di origine. La rivincita, invece, è quella di chi non è mai partito ed oggi vede i forestieri emigrare dalla loro terra per venire a stabilirsi proprio nei luoghi da cui, una volta, tutti scappavano.  Stiamo parlando del Vulture. Basilicata profonda insomma. Un’enclave di campagna solenne e severa, a volte arcigna, fatta di grandi spazi e di poca gente, rimasta rurale nonostante l’arrivo, ormai tanti anni fa, degli stabilimenti della Fiat e dell’autostrada A16 Napoli-Canosa: che solca i fondovalle ed è come se le colline circostanti la guardassero perplesse. Mentre su tutto troneggia il profilo boscoso del grande vulcano (i geologi dicono che tecnicamente non è spento ma solo inattivo, sebbene da decine di migliaia di anni), il Vulture appunto, che con i suoi milletrecento e passa metri condiziona il paesaggio e il clima, producendo a sorpresa nebbie e brezze degne di altre latitudini. Su questa terra lavica i contadini da sempre lavorano con il loro stile di vita sobrio e intriso di un fatalismo tutto meridionale. A ondate, nei secoli, per sfuggire ai turchi sono poi arrivati gli albanesi, che si sono insediati in vaste comunità: in alcune di queste ancora fanno sentire il loro idioma sia nella lingua di tutti i giorni che sulle targhette scritte a penna sui campanelli. Qui regnò un personaggio fondamentale del medioevo come Federico II, maestro di esoterismo e di falconeria, che a metà del ‘200 vi fece costruire uno dei suoi castelli più belli e suggestivi, quello di Lagopesole, famoso per essere l’unico dei suoi a contenere una chiesa intera e per aver dato ospitalità, seicento anni dopo, al terribile brigante Crocco. Anche a Melfi, capoluogo del Vulture, si trova un castello grandioso e leggendario, costruito però dai Normanni e prediletto dal crudele Roberto il Guiscardo. Mentre a Venosa, cittadina splendida nella sua impolverata atmosfera di provincia, nacque Orazio, il poeta latino che con il suo celebre “Nunc est bibendum” vaticinò in qualche modo il futuro successo del vino della sua terra, quell’Aglianico del Vulture doc, rosso di straordinario corpo, che da vent’anni è divenuto il più efficace motore di sviluppo del territorio. E’ grazie ad esso che negli ultimi lustri l’area ha conosciuto un vero e proprio rinascimento e che le sue radici più antiche – come la gastronomia locale – hanno potuto essere riscoperte. La seconda e addirittura la terza vita di Rino Botte e di sua moglie Lucia cominciano appunto qui. Quando, al volgere del millennio, dopo i successi mietuti gestendo un prestigioso ristorante lombardo, hanno deciso di tornare a Barile per coronare il duplice sogno della loro esistenza: aprire una locanda e produrre vino nella terra d’origine, portando con sé l’esperienza acquisita altrove e pescando in loco le ricette, i prodotti e i sapori. Da autentici pionieri nell’un caso, da accorti imprenditori nel secondo. Il risultato è stato prima la Locanda del Palazzo, hotel di charme e unico ristorante “stellato” Michelin della regione, e poi Macarico, piccola ma agguerrita azienda vinicola improntata alla moderna formula della produzione di qualità con vendita diretta e cantine “aperte” al visitatore. Così, se al Palazzo si cena nei grandiosi androni che un tempo furono le stalle di questa severa costruzione signorile cinquecentesca, a picco sulle grotte scavate nel tufo dagli albanesi, ai piani superiori si dorme nelle stanze che si affacciano sulla piazzetta del centro storico del borgo, un paese dove tutto, nel bene e nel male, ha ancora un patina della Lucania antica. Ai fornelli, Lucia ricrea e rielabora con raffinatezza i piatti che, alla stessa ora, contemporaneamente fumano in tante altre cucine del Vulture: fiori di zucca, melanzane e zucchine fritte, ricotta con le noci, cavatelli, capretto e agnello, i cui profumi si propagano in simultanea, come ad un segnale convenuto, per i vicoli di Barile, Rionero, Rapolla, Ginestra, Maschito e gli altri borghi all’ombra del vulcano, scandendo la giornata con ritmi e sonorità altrove dimenticate. Avventurarsi nel reticolo di strade che fra i saliscendi collegano tra loro i vari centri del comprensorio è del resto un’arma infallibile per riannodare il filo della storia locale. La gente è poca: quasi invisibile nelle campagne, ritrosa nei centri abitati. Una donna appollaiata sul carico di legna trainato dal trattore fa ritorno a casa, tenendo con la mano il fazzoletto avvolto attorno al capo. Dalle alture non è difficile scorgere il profilo incombente della montagna e del verde cupo che la circonda, degradando lentamente tra macchie di colore delle colline più a valle, con il loro incedere marcato ora dal grano, ora dall’orzo e ora dal pascolo. Una maglia da cui sporadicamente spuntano ovili e piccole coloniche e che da larga si fa fitta dove l’occhio incrocia gli orti, i frutteti e le vigne, con i filari del prezioso Aglianico pettinati uno a uno e ritagliati in appezzamenti a volte minuscoli, comunque mai grandi, a testimonianza di una struttura fondiaria legata ancora alle misure dell’azienda familiare. E mentre, seduti sulla porta di casa, i volti scavati dal sole di vecchi che paiono usciti da un documentario d’antan si aprono in timidi sorrisi, qua e là si affacciano i sintomi del progresso e della modernità vera o presunta – i tralicci dell’alta tensione sui crinali, villette dalle architetture improbabili, colpi di alluminio che cozzano contro la povera pietra delle case più antiche – in una sorta di patchwork paesaggistico che fotografa alla perfezione l’equilibrio, o forse lo stallo, di una società in bilico tra passato e futuro. Lo stesso che al design futuribile scelto per la progettazione delle nuove cantine oppone l’allegra, intramontabile ritualità del cosiddetto “turismo delle castagne”: l’abitudine domenicale delle famiglie di andare nei castagneti sulle falde del monte a raccogliere i prelibati marroni. Gerardo Giuratrabocchetti (“E’ un cognome di origine albanese, credo il più lungo d’Italia”, dice lui) appartiene ad esempio a una genia di notabili di Rionero del Vulture. Gente che la realtà di questa terra la conosce bene, visto che per generazioni sono stati i notai locali. E’ per questo che, interrompendo la tradizione notarile di famiglia, ma proseguendo quella  – parallela – della viticoltura, dieci anni fa decise di dedicarsi anima e corpo all’Aglianico. E per non tagliare del tutto il cordone ombelicale con il passato, pensò di chiamare la sua azienda nel modo più esplicito: Le Cantine del Notaio. Dare ai vini il nome degli atti rogati un tempo dagli antenati fu una conseguenza naturale: il Sigillo, la Firma, il Repertorio. Tutti Aglianico del Vulture doc, ovviamente, ad eccezione del Rogito, un rosato di grande struttura a base di uve di Aglianico, un vero gioiello. La barriccaia l’ha creata invece recuperando, nel centro storico del paese, le antiche grotte utilizzate come deposito nel ‘600 dai francescani e scavate nel tufo vulcanico: tutte collegate tra loro, si sviluppano in una sorta di percorso ipogeo e convergono in una piazzetta a forma di ferro di cavallo che, in dialetto locale, si chiama facile. Serviva, spiega Giuratrabocchetti detto Giura, alla raccolta delle acque piovane: un “bacìle” che la pronunzia corrente ha trasformato nel tempo in “facile”. Ma in questo mondo dove tutto sembra immobile la realtà, come dicevano all’inizio, cambia in fretta. E se per un vulturese che resta, come lui, c’è n’è uno che torna, come Botte, ora sono i “forestieri” a mettere radici. E’ il caso di Fabrizio Piccin e Cecilia Naldoni, lui ex marinaio e lei ex fotografa, vignaioli “fuggiti” anni fa da una Toscana troppo affamata di glamour e approdati dopo lungo peregrinare nella terra dell’Aglianico con un progetto preciso in testa: fare un vino a misura d’uomo. Così hanno fondato il Grifalco, azienda che porta un nome di fantasia (“E’ l’unione del grifo, l’emblema della città dalla quale siamo venuti, Montepulciano, e del falco, il rapace più diffuso nel Vulture”, spiegano) e si sparpaglia tra Rapolla, Maschito, Venosa e Ginestra, dove coltiva vigneti di dieci, trenta e anche cinquant’anni. Veri e propri fossili viventi, piante capaci di affondare davvero nel terroir. Sono loro, Fabrizio e Cecilia, i nuovi ambasciatori di una terra che in fondo, anche nel nome del vino che produce, non ha mai cessato di sentirsi un po’ amara.

AGLIANICO DEL VULTURE :L’Aglianico è uno dei principali vitigni autoctoni dell’Italia meridionale. C’è chi lo fa discendere dalle uve con cui si produceva il Falerno, il vino dell’antichità cantato da Orazio e per il quale già i Romani avrebbero inventato una sorta di “doc” ante litteram, delimitando l‘area di produzione e imponendone la conservazione in anfore sigillate e etichettate. Ma è soprattutto sull’origine del nome che gli storici si accapigliano: secondo alcuni deriverebbe dal celebre vino Gaurano, secondo altri dall’Ellenico (non a caso in certe zone dell’Avellinese e della Lucania l’Aglianico viene ancora chiamato Ellanico). Più recente la teoria secondo cui il termine deriverebbe invece dal greco aglucos (cioè amaro, senza zucchero), usato anticamente nel Sannio per indicare l’asprezza dell’Aglianico Amaro, vitigno tipico dell’area. Resta il fatto che, con il tempo, di Aglianico si sono sviluppate diverse varietà. Tra queste, la più nota è quella del Vulture, che ha ottenuto già nel 1971 il riconoscimento come Denominazione di Origine Controllata. Anche se fino agli anni ’50 non mancava chi usava le uve per produrre un fantasioso “spumante rosso di Aglianico” esportato con successo perfino in Sudamerica. Quello che si produce oggi e che è considerato dagli esperti uno dei più grandi rossi italiani non è insomma che un lontano parente del vino spigoloso e aspro di una volta, quando l’Aglianico costituiva la “benzina” per il lavoro manuale nei campi. Si tratta di un vino di grande corpo e struttura, adatto al lungo invecchiamento, dal bel colore rosso rubino che col tempo assume riflessi aranciati. Ha un profumo intenso e un sapore asciutto, armonico, che invecchiando tende al vellutato. I gourmet lo abbinano alle grandi carni rosse e alla selvaggina, ai formaggi stagionati e, quando è più giovane, anche ai primi più saporiti della tradizione lucana.

Acquisti e visita delle cantine: Cantine del Notaio Vendita diretta e visita delle cantine su prenotazione

Rionero in Vulture (Pz), Via Roma 159

Tel. 335 6842483, 0972 723689

www.cantinedelnotaio.it, info@cantinedelnotaio.it

Il Grifalco Vendita diretta e visita delle cantine su prenotazione

Venosa (PZ), Località Pian di Camera.

Tel. 0972/31002, grifalcodellalucania@email.it

Macarico Vendita diretta e visita delle cantine su prenotazione

Barile, loc. Macarico (rivolgersi alla Locanda del Palazzo, 0972/771051), info@macaricovini.it

PIATTI E CUCINA DEL VULTURE: La cucina del Vulture si basa sui prodotti dell’orto, carni ovine e formaggio. Tra le paste, i cavatelli sono simili a gnocchi incavati con un dito e conditi con fagioli o sugo di pomodoro fresco e basilico, cacioricotta o cime di rapa. I ferretti sono invece maccheroncini bucati con un ferro sottile. Le lagagne, simili a spesse tagliatelle, si preparano con ceci e aglio, peperoncino, cotica di maiale. La marrunara è infine una pasta lunga tirata a mano e condita con ragù fatto in casa. Oltre ai lampascioni, sono poi immancabili anche i peperoni secchi detti crusche, fritti nell’olio, abbinati a uova strapazzate o a baccalà bollito. Tra gli insaccati la salsiccia è insaporita con peperoncino e finocchio selvatico e poi affumicata, mentre la soppressata è fatta con la carne più pregiata del maiale e poco grasso. I piatti di carne sono gli arrosti di agnello e capretto alla brace. Con la carne di pecora si fa il cutturiedd, un lesso cotto sul fuoco all’aperto, con verdure e aromi. Lo sfriscitiello al finocchio è invece una miscela di bocconcini di carne e patate. I dolci più caratteristici? Taralli coperti di glassa di zucchero, calzoncelli ripieni di crema di ceci e castagne, frittelle con zucchero e miele, crostate con sanguinaccio, biscotti con mandorle e vino cotto.

VENOSA, LA CITTA’ DI ORAZIO :Costruita com’è su uno sperone vulcanico tra due valloni, Venosa, la città di Orazio, sembra quasi un’isola di pietra. Su tutto domina l‘imponente Castello Ducale, poderosa fortezza quattrocentesca che ospita il Museo archeologico. Ma il bello, preso il fresco sotto i portici della bella piazza antistante, è addentrarsi nel centro storico che la costeggia, un piccolo gioiello di architettura a cui il pulsare della vita quotidiana conferisce un tocco di autenticità. Ecco dunque, ovviamente, la casa di Orazio, con i suoi bellissimi mosaici, la stupenda chiesa della SS Trinità, con i suoi affreschi paleocristiani di scuola orientale e la spettacolare tomba di Roberto il Guiscardo d’Altavilla. Accanto, si apre il grande parco archeologico che testimonia da un lato il fasto dell’antica città romana e longobarda e contiene dall’altro la cosiddetta Incompiuta: una grande chiesa duecentesca mai portata a termine e costruita riutilizzando materiali ed epigrafi romani, longobardi ed ebraici che ne fanno un museo a cielo aperto. Nella cinquecentesca cattedrale cittadina, invece, vale la pena di visitare la cripta, con il cenotafio di Pirro del Balzo Orsini, signore di Venosa e costruttore del Castello.

Testo di: Stefano Tesi

Foto di: Lucio Rossi

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