Terra nera e primitiva, di migrazioni e di ritorni. L’ultima eruzione, nel 1995 ha spazzato via una parte delle vigne, la cooperativa, un pezzo di strada. Ma non importa: si ricostruisce e si continua a produrre, con un nuovo e ambizioso progetto.
“Parto per l’Olanda ma il mio cuore resta qui. Addio amici. Fino a quando non tornerò, le lacrime saranno il futuro della mia vita”. Sono le parole di una morna, la musica cantata in tutto l’arcipelago, carica di nostalgia, malinconia, sofferenza per i parenti lontani. Del resto vivono più capoverdiani all’estero che in patria. L’emigrazione di massa più recente è stata quella degli anni ’70, conosciuta come la diaspora dei “grembiuli neri”, che ha portato anche in Italia dapprima tantissime capoverdiane e, molto più tardi, intere famiglie. A Napoli, Genova, Torino, Roma e Milano ci sono oggi vere e proprie comunità. Ma salvo rare eccezioni, tutti hanno voglia di tornare, specie le donne, per fare quello che hanno sempre fatto le loro madri e le nonne: tirar su i nipoti.
Quando inizia a spirare l’Harmattan, il vento che viene dal deserto e tutto ammanta in un velo di sabbia impalpabile, nelle isole si festeggia. Perché di solito la bruma preannuncia l’arrivo del Natale e quello degli emigranti. Dall’America tornano a Fogo e Brava. I loro bisnonni, pescatori abili e coraggiosi, furono i primi ad essere ingaggiati dalle baleniere dello Zio Sam e a stabilirsi in Massachussets. A Boston si concentra tuttora una delle principali comunità capoverdiane degli States. Non c’è dunque da stupirsi se a Fogo si respira un po’ d’America: qui c’è l’unico fast food dell’arcipelago, circola qualche grossa auto, e molti ragazzi deambulano abbigliati come autentici “fratelli” d’oltreoceano. Una contaminazione culturale che tuttavia per il momento non ha intaccato più di tanto la vita dell’isola, rimasta quasi ferma nel tempo e intatta nell’aspetto.
La prima volta ci sono stata nel 2000 e a dieci anni di distanza ho ritrovato le stesse emozioni, la stessa cordialità e la voglia di fare senza stravolgere identità e tradizioni culturali. Molto si deve al fatto che qui non è arrivato il turismo di massa: l’isola del vulcano, aspra di rocce e colate laviche, dalle spiagge di pece e marosi, attira per lo più appassionati di trekking e natura, che sanno apprezzare e rispettare ciò che li circonda. Ecco perché la maggior parte dei pochi turisti viene fin qui per il grande cono, con la caldera e la cima del Pico, quota 2 mila e 829 metri. Entrano in questo spettacolare girone d’inferno per avventurarsi lungo i ripidi crinali di cenere, superare pendenze del 40%, e finalmente guardare nella bocca del gigante e poi tutto intorno abbracciare con lo sguardo il rosario di isole perse all’orizzonte.
O forse, più semplicemente, non è il turismo la vera vocazione di Fogo, ma piuttosto la terra, con il lavoro alacre delle civiltà contadine e il mare, con la lotta quotidiana dei pescatori. Dunque niente arenili dorati, acque smeraldine, “villaggioni” full board. Le splendide spiagge nere battute dalle onde blu dell’oceano sicuramente non invogliano a prendere un bagno: solo qualche ragazzo con la tavola da body surf ci si avventura. E per soggiornare, solamente piccole strutture, molte ricavate nelle antiche sobrados, le case padronali dei portoghesi. Qui però c’è qualcosa di raro e prezioso, come la vita reale di un popolo povero e orgoglioso, generato dalla storia tragica dello schiavismo, che prova, non senza difficoltà e contraddizioni, a cercare una via saggia e sostenibile allo sviluppo. Ciò di cui c’è bisogno sono progetti in grado di valorizzare le peculiarità dell’isola, magari con un po’ di creatività, una buona dose di coraggio, un pizzico d’incoscienza e tanta generosità. Non era facile trovare qualcuno che riunisse in sé tutti questi elementi. Ma venne un uomo… che si chiama Ottavio Fasano. E’ un frate Cappuccino e con i confratelli, presenti nell’arcipelago dal 1947, opera sulle isole a sostegno della popolazione più povera e svantaggiata. Tramite due onlus da lui create si sono potuti realizzare recentemente alcuni progetti importanti, come il nuovo ospedale San Francesco a Fogo, moderno e gratis per tutti, con annessa la Casa del Sole dove si può soggiornare, la casa di accoglienza per ragazze madri o in difficoltà a Santiago, la formazione in scuole alberghiere italiane per i giovani capoverdiani.
Uno dei chiodi fissi di padre Ottavio è sempre stato dare lavoro, dignitoso, remunerato, utile. E così, tre anni fa, ecco l’idea: se come dimostra l’ottima ma scarsa produzione di vino delle rade vigne della caldera, Fogo ha le qualità per sviluppare la viticultura, perché non farne un’attività su larga scala? Con determinazione al limite della testardaggine e con grande fatica oggi il sogno sta diventando realtà. Alle pendici del vulcano, trai 650 e gli 800 metri, sopra una lingua di terreno di 30 ettari concessa in comodato d’uso per 50 anni dal governo capoverdiano, dove c’è acqua dolce, è stata realizzata la vigna di Maria Chaves.
Per gli impianti, i sistemi di coltivazione, la selezione delle varietà, il progetto per la cantina in fase di edificazione e il processo di vinificazione il tostissimo padre piemontese è riuscito a riunire ed entusiasmare un gruppo di partner finanziatori del settore fra i più noti d’Italia, come Conterno Fantino, storico produttore del Barolo e Ezio Rivella presidente dell’ Unione Italiana Vini. Si prevede la produzione di 220.000 bottiglie circa, (già l’anno prossino si prevedono 40- 50 mila) destinate principalmente al mercato interno, supportato dalla ragguardevole crescita turistica. La vigna di Maria Chaves creerà occupazione diretta, ma la cantina garantirà mercato anche gli altri viticultori dell’isola nelle annate di sovrapproduzione, e il guadagno andrà a finanziare l’ospedale e le altre attività dei Cappuccini nell’arcipelago. Inoltre per permettere uno sviluppo agricolo nuovo e positivo nell’isola , è stato creato un frutteto pilota con piante drupacee (albicocchi, peschi, mandorli, susini),olivi e agrumi, per sperimentare cosa si può produrre a quell’altitudine, con il metodo dell’irrigazione goccia a goccia.
Si apre una nuova strada di speranza e forse si chiuderà quella dell’emigrazione, facendo finalmente della morna solo un genere musicale e non più la colonna sonora della vita nostalgica dei migrantes.
Testo di Teresa Scacchi Foto di Larissa Lazzari
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