RAPA NUI Isola di Pasqua

Per i turisti è l’isola misteriosa e irraggiungibile, circondata da mare cristallino e avvolta dal fascino delle 900 grandi teste di pietra. Per i maori è solo Rapa Nui, la patria abusivamente espropriata dal Cile. Che vogliono riconquistare sotto la guida del re Agterama.

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Rapa Nui è lunga ventiquattro chilometri e la percorri per intero e in fretta senza vedere una palma. E neppure una spiaggia. Colline verdi, lisce e pulite, coste di roccia complicata con il mare che gli schiuma addosso, campi di velluto con cavalli bradi al pascolo. Tanti cavalli, mantello baio quasi tutti, segno di una stessa progenie, aria felice tutti. Qualcuno si porta addosso un cavaliere solitario che si disegna all’orizzonte sul cielo che solo qualche volta è blu, più spesso imbiancato di nubi leggere e velato di spruzzate di piogge effimere. Aria fresca, niente afa tutto l’anno, gli alberghi si permettono di non avere l’aria condizionata. Non serve. Niente di tropicale, sembrerebbe. Un pezzo d’Irlanda, o di Scozia, con l’aggiunta di basse scogliere contorte e spianate deserte che finiscono nel mare e mai nessuno in giro che ricordano semmai perfino l’Islanda. Giusto per fare paragoni con altre isole. Più che un pezzo di Polinesia andato alla deriva.

Come dovrebbe essere, viste le coordinate geografiche e le cinque ore e passa di Boeing 767 a 800 all’ora per raggiungerla partendo dalle coste del Cile. E tutto quell’azzurro intorno. Ancora un po’ di oceano e si arriva a Tahiti. Il 767 atterra e riparte per Papeete, infatti. Altri 4000 chilometri di onde, a dire il vero, passando sopra qualche isola perduta. Bella, certo, solo che non te la aspetti così, Rapa Nui, cioè semplicemente Grande Scoglio, nella lingua di qui. Isola di Pasqua per noi che ci siamo arrogati il diritto di cambiarle nome per via di un navigatore senza fantasia che ci arrivò nel giorno di Pasqua del 1722, Jacob Roggeveen, olandese perdigiorno in giro per i mari a scoprire terre sconosciute. Roggeveen cercava oro e ricchezze di qualsiasi genere, come tutti i navigatori mezzi pirati e mezzi esploratori che battevano gli oceani in quel tempo ma scoprì un’isola brulla e i resti di bellicose tribù sfiancate da guerre. Era una terra povera ma con qualcosa di straordinario che forse i rudi marinai non capirono subito. Tutto il territorio dell’isola era punteggiato di imponenti statue di pietra.

Isolate e a gruppi, per la maggior parte abbattute e rovinate, rozze certo, ma a misurarle ci voleva la tecnologia degli egiziani delle piramidi per realizzarle. Che popolo straordinario viveva su quello sputo di isola perduta nell’oceano? E da dove era arrivato? Fu così che il mondo incivile seppe dell’esistenza di un’altra indifesa isola sperduta da sfruttare e il mondo civile scoprì un’altra civiltà sconosciuta. Da una parte si scatenarono i mercanti di schiavi che battevano già le isole polinesiane e fecero scempio della popolazione per rifornire di manodopera le piantagioni australiane e le miniere del Perù, dall’altra studiosi di ogni materia a elaborare ipotesi sulla civiltà rapanui. Ingegneri compresi.

Lo capisci che c’è un problema di ingegneria alla base di tutto se stai con il naso in su a guardare uno dei 900, circa, testoni di pietra piantati qua e là chiedendoti come diavolo hanno fatto a scolpirli visto che non avevano strumenti di ferro, e come diavolo hanno fatto a trasportare tonnellate e tonnellate di tufo per tutta l’isola. Che sarà piccola certo, ma pur sempre grande quasi come l’Elba. E poi, perché tutto quel daffare? Si rispolvera il mito di Atlantide, gli ufologi hanno la dimostrazione, finalmente, dell’esistenza di extraterrestri che avrebbero fornito scalpelli e conoscenze scultoree, o portato direttamente i moai con un paio di astronavi capienti, le teorie sulla colonizzazione dividono il mondo scientifico. Le tecniche moderne fanno scoprire dna polinesiano in tutti i resti umani trovati sull’isola. Niente extraterrestri ma una flotta di piroghe verso l’anno 500 approda per caso sull’isola e lì comincia la strana storia di Rapa Nui. L’isola è, come da copione, coperta di palme, anzi è solo un immenso palmeto, come dimostrano strati di polline di palma trovato dai ricercatori. Intorno un mare profondo ma pescoso, pieno di delfini facili da pescare, pochi approdi, ma non importa. E’ un habitat naturale per chi viene dalle dure Marchesi, vulcani neri piantati nel mare, o dalle Tuamotu. Così il popolo rapanui cresce e, quasi, prospera per secoli. La terra è fertile, si inventano orti e giardini e comincia a costituirsi una società. Complicata, come tutte le società degli uomini.

Non esiste neppure il problema delle abitazioni visto che l’isola mette a disposizione centinaia, circa 300, grotte naturali, comode e protette. Si calcola che fossero 3-4000 mila i rapanui, tutti riescono ad avere un tetto. Si vive in grotta i primi tempi, poi ci cominciano a costruire case. Che sono fatte come grotte. Che era l’unico riferimento architettonico a disposizione. Il villaggio di Orongo, protetto da attenti rangers e da un rispetto che incute la sua spettacolarità spiega tutto. 53 case addossate fatte di pietra, a forma di grotta appunto, tutte con una strana e piccolissima apertura a fare da ingresso che ti fa pensare a tutt’altro che a un clima e una pace tropicale. Era la città dei potenti, la casta dominante che si era scelto il luogo più straordinario dell’isola, a sudovest del vulcano Rano Kau, sopra una scogliera a picco su tre faraglioni disabitati, i Motu Nui, Motu Iti e Motu Kao Kao, colonizzati da alcune specie di uccelli. E qui che si svolge la cerimonia del Tangata Manu diventata famosa complice Kevin Costner con il suo film che pare non sia stato il successo previsto ma indubbiamente un grande affare per l’isola, che il grande pubblico dei turisti comincia a conoscere.

Tutti gli anni le varie tribù dell’isola mettevano in campo i loro guerrieri migliori che dovevano buttarsi giù per il dirupo, raggiungere i motu a nuoto là sotto, prendere un uovo di sterna fuscata e portarlo su al sacerdote che gestiva la cerimonia. Per farlo più in fretta, visto che vinceva chi arrivava primo, si buttavano giù a rompicollo con specie di slitte. Lo fanno ancora oggi, la differenza che oggi ci sono le ambulanze ad aspettare gli aspiranti uomini-uccello. Chi vinceva diventava makemake, uomo uccello, portava lustro e privilegi per un anno alla sua tribù oltre ad avere enormi vantaggi personali. Insomma nella piccola isola si era sviluppato un piccolo mondo complesso come il resto del mondo. Con un re, la corte, i notabili, le caste, i sacerdoti, i guerrieri, le fazioni, gli attriti, i privilegiati e i non privilegiati, le guerre. A Rano Raraku c’è la “fabbrica” dei testoni dell’Isola di Pasqua. E lì capisci che c’è qualcosa di mostruosamente incomprensibile nella questione moai. Il luogo è quasi inquietante ma magnifico.

Un pezzo di vulcano scavato, con le colline verdi intorno seminato da 400 statue in diverse fasi di costruzione e di trasporto. E’ come vedere un piccolo esercito disordinatamente in viaggio. Due metri il più piccolo, 21 metri il più grande, che però giace ancora incompiuto nella roccia. Un’impresa folle, un giorno qualcuno ha dato inizio a questa follia collettiva che ha segnato per secoli la vita dell’isola. Il venditore di souvenir all’ingresso ti fa vedere lo strumento con cui gli scultori, che non disponevano di attrezzi di metallo, scolpivano le statue. Una specie di scure, manico di legno e pietra dura legata con corde vegetali. Il tufo è più tenero, i moai venivano scolpiti sdraiati, poi estratti dalla parete, messi in piedi e trasportati sui loro ahu, cioè specie di altari di pietra sostenuti da muri, coperti di sassi piatti con una leggera rampa sul davanti.

Luoghi di sepoltura di personaggi importanti su cui venivano sistemati i moai. Ci sono 350 ahu nell’isola, ognuno con i proprio testoni sopra. Il più spettacolare è l’Ahu Tongariki con 15 grandi moai in fila piantati sopra. E per colpa dei 900 moai costruiti che Rapa Nui non ha più neppure una palma. Per trasportare le statue, enormi, impossibili, mostruosamente grandi per la tecnologia dell’epoca, servivano grandi quantità di legname per costruire rulli e impalcature. I palmeti già decimati dal prelievo continuo per la realizzazione di grandi zattere con cui andare nel difficile mare lì intorno finiscono nel giro qualche secolo. Nel 1400 la palma è completamente estinta. Non ci sono più alberi per costruire le zattere con cui andare a pesca. Il ritrovamento di ossa rosicchiate dimostrano che la pratica del cannibalismo fu l’unico modo per procurarsi proteine. Insomma la decadenza di una civiltà. Cominciano le guerre interne, e si arriva perfino a una rivoluzione. Poveri contro ricchi. I simboli del potere vengono abbattuti. I primi visitatori europei vedono tutte le statue a terra. Solo in questo secolo tutti i siti archeologici sono stati restaurati con interventi internazionali. E hanno ridato all’isola l’aspetto dei suoi momenti più fastosi. Palme a parte. A dire il vero un boschetto di palme ha resistito a lato della spiaggia di Anakena, la più grande e bella dei quattro punti in cui l’isola perde il suo aspetto scozzese per sembrare un’isola tropicale: le guide lo mostrano come un reperto archeologico.

La storia ancora più recente vede l’intervento del Cile che si impossessa ufficialmente dell’isola nel 1888 facendola diventare territorio di una sua provincia solo perché si trova più vicina alla sua costa e senza chiedere il parere dei rapanui. E’ un’occupazione vera e propria, la gente non può lasciare l’isola e molto lavori sono obbligatori e non remunerati. E’ lo stile Pinochet. Finito lui c’è un ritorno alla normalità e l’impennata turistica del dopo-Kevin Kostner. Con un piccolo problema di convivenza. I cileni. Che gestiscono un po’ tutto. Alberghi, agenzia di viaggio. Ai maori restano le bancarelle del mercato artigianale a Hanga Roa, la città dove praticamente vivono tutti i 3000 isolani, qualche coltivazione, gli spettacoli stile polinesiano nei ristoranti. Così nella piazza davanti alla chiesa cattolica, religione ufficiale dell’isola, c’è un sit-in fisso dei militanti che chiedono l’indipendenza. Il futuro potrebbe chiamarsi Terai Huke Atan, un maori imponente, di aspetto affascinante, corpo statuario, pelle ambrata, tatuato e scarificato qua e là. Si è autoproclamato re con il nome di Agterama e vuole che Rapa Nui torni ai rapanui, scacciando i cileni e tutto quel che il Cile significa. Un’ipotesi peraltro non così impensabile oggi che Rapa Nui ha raggiunto un certo benessere economico e una certa autosufficienza. I suoi proclami sono gridati anche su you tube e dai siti internet Agterama chiede un incontro con il Papa perché ripari l’ingiustizia. Lo incontro il primo giorno. Sei italiano? Fammi incontrare con il Papa, mi dice. “Un pazzo” lo liquidano i cileni che lavorano sull’isola ma qualcuno teme che il seme della rivoluzione possa trovare terreno fertile sull’isola brulla. Una rivoluzione, in fondo, c’è già stata.

Testo di Lucio Valetti Foto di Sergio Pitamitz

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