Perù: immersi nel paradiso della biodiversità

L’aria rarefatta delle vette andine diventa un vago ricordo, quasi un rimpianto, quando si atterra a Puerto Maldonado, nell’area amazzonica posta nel sudest peruviano. Un velo lattiginoso di umidità avvolge ogni cosa, sfocandone i contorni. La prima sensazione è di spaesamento dopo la limpidezza di Machu Picchu e della Valle Sagrada. Sembra di aver cominciato un nuovo viaggio, in un altro paese. Questa zona rappresenta infatti un’eccezione rispetto agli standard paesaggistici di questa nazione, di cui conosciamo soprattutto le immagini delle Ande e del deserto costiero.
 
 

Puerto Maldonado è il capoluogo del distretto Madre de Dios (dall’omonimo fiume), ma è solo una cittadina di passaggio, ultimo avamposto abitato prima di addentrarsi nell’inferno verde. Da qui si apre una superficie di 86.000 kmq di fitta foresta pluviale, con la più grande biodiversità del pianeta. Le molteplici tonalità di colore delle foglie, dei tronchi e della boscaglia si sovrappongono e si mescolano come sulla tela di un pittore impressionista.

Quando la lancia a motore lascia l’attracco e solca le acque torbide e spesse del Rio, la brezza è un sollievo dall’afa. Il sole, alto nel cielo, è un bagliore chiaro sfilacciato. La corrente è forte e dei grossi tronchi corrono e si immergono dentro voraci mulinelli, per riemergere e proseguire il loro corso fin dove il fiume li conduce. Magari in Bolivia, forse addirittura dentro il Rio delle Amazzoni, in Brasile.

Il corso d’acqua pare un’autostrada, dove le imbarcazioni si spostano con naturalezza e famigliarità. Serpenti e caimani popolano le sue sponde, ponendosi negli angoli più tranquilli o nei molteplici diverticoli che si insinuano nel cuore della foresta.


Un tempo, il nome di questo fiume era Amarumayo (fiume dei serpenti), per la considerevole presenza di anaconde. Furono i Conquistadores di Pizzarro a cambiargli nome, giunti nella seconda metà del 1500, ritenendo sorgesse in quest’area la citta di Paititi, ovvero il leggendario e mirabolante Eldorado inca. Oggi invece gente da tutto il mondo vi approda per trascorrere alcuni giorni nell’esplorazione delle tre aree di conservazione naturalistica: la Riserva della Biosfera del Manu (dichiarata Patrimonio Naturale dell’Umanità dall‘UNESCO nel 1987), la Riserva Nazionale di Tambopata – Candamo e il Parco Nazionale Bahuaja – Sonene.

I gruppi di turisti alloggiano in lodge ecocompatibili, immersi nella natura. Le stanze sono degli spaziosi e spartani bungalow di legno rialzati da terra, dove l’elettricità è dispensata a orari fissi, l’acqua non scorre mai calda e la telefonia mobile è senza campo. Le finestre sono grandi zanzariere, senza vetri né tende per stabilire una maggiore sintonia con la natura e il suo ritmo, dalle prime avvisaglie dell’alba allo scuro intenso della notte.





A piedi o in canoa, delle guide esperte conducono lungo percorsi studiati, che si addentrano negli anfratti selvaggi, dentro un groviglio di rami e liane. La vegetazione è solo apparentemente disabitata, ma nasconde nel suo ventre caldo le proprie meraviglie. Centinaia di specie di uccelli cinguettano e agitano le fitte frasche; ragni possenti si affacciano dai loro buchi nel terreno; piranha famelici battono le acque in cerca di prede; famiglie di scimmie lanciano frutti per difendere il territorio; anaconde in fase digestiva galleggiano a bordo fiume; caimani vigilano sugli argini e grossi tapiri corrono nel cuore della boscaglia. Di molti animali però è facile sentire solo il rumore e sussultare di emozione, per la suggestione che regala questo luogo, in gran parte, ancora incontaminato.



Testo e foto di Barbara Oggero

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