Gli abitanti di Rotonda, uno dei 26 paesini che ricadono nel versante lucano del Parco del Pollino, rinnovano ogni anno il matrimonio tra un delicato abete e il faggio più imponente della zona. I fedeli si tramandano da generazioni il compito di setacciare i boschi circostanti per scegliere i due sposi che, trasportati in processione da uomini e buoi, verranno innestati l’uno nell’altro, dando vita a un totem alto più di trenta metri, che ne sancirà l’unione. Si tratta di uno dei riti propiziatori di arcaica tradizione che continuano a perpetrarsi in Basilicata, antica terra di contadini, pastori e boscaioli che nel legame tra cielo e terra ha sempre visto una speranza di salvezza. Il turista in viaggio nel meraviglioso territorio del Parco del Pollino – che con i suoi 192.000 ettari di terreno è il più esteso d’Italia – questo legame ancestrale con la natura lo ritroverà nei luoghi in cui la tradizione si perpetua, nella gentile saggezza della gente, ma soprattutto lo sentirà nel cuore. Basterà alzare lo sguardo verso il gigantesco Monte di Apollo, così lo definirono i greci, irto a cavallo tra Calabria e Basilicata, con le cime sempre innevate che superano i 2000 metri d’altezza, per sentire il respiro degli dèi. La Serra Dolcedorme, la Serra del Prete, la Serra delle Ciavole, la Serra di Fisco sono il luogo ideale per una vacanza in cui associare al trekking, alle escursioni in mountain bike e in Land Rover il riposo della mente e la disintossicazione dai ritmi frenetici delle città.
il Parco del Pollino offre paesaggi da sogno, che hanno il dono si restituire quella dimensione sacra, oggi così difficile da recuperare, che un tempo gli uomini intrecciavano con la natura. Il suo immenso territorio è il regno delle piante e degli animali: le nuance della macchia mediterranea si mescolano con le tinte forti delle foreste di faggio, di frassino, di quercia, di castagno e di acacia; le orchidee fuxia e la rosa canina tappezzano i prati in primavera, e le foglie dipingono di rosso i panorami autunnali. Sui verdi pianori i cavalli bradi scrollano le criniere al vento, in compagnia di mucche possenti e sonnolente. Da qualche parte si nasconde il lupo solitario e la lontra si bagna la coda nelle limpide acque dei torrenti. In alto, tra i picchi rocciosi dai colori cangianti, l’aquila reale dispiega le ali e il suo sguardo acuminato si perde tra le profondità dei rilievi. E quando sulla montagna il verde comincia a diradarsi e la sua pelle diviene scarna, là dove persino i faggi non possono arrivare, ecco apparire gli argentei guerrieri del parco, i pini loricati – rarissima specie ed emblema del Parco – con le chiome scapigliate protese verso il vuoto e i tronchi a placche, che ricordano le loriche dei romani. Il Pino loricato muore, ma il suo corpo arboreo, come una metafora della gente di Lucania, resta attaccato alla terra per centinai d’anni. Su tutti veglia il “Patriarca”, che ha superato i novecento anni ed è ancora lì, indifferente alle ingiurie del tempo, sul colle del Dragone a far da sentinella alla valle.
Il percorso che partendo da San Severino lucano porta al Santuario della Madonna del Pollino è una scalata verso il Paradiso. A metà del cammino, all’altezza delle Gole di Jannace, il bosco si fa più gentile: la rapsodia acquatica della cascata fa da sottofondo a un panorama di tronchi color ghiaccio, di rami attraversati dalla luce rosata che si protendono sul sentiero come un abbraccio, un benvenuto alla gente che costeggia il ruscello in un’atmosfera da fiaba. In cima al monte su cui è sito il Santuario, a 1537 metri di altezza, una giovane, esile madonna offre il suo bambino alle vette maestose del Pollino: è la statua bronzea dell’artista francese Daphnè Du Barry. Lì, in cima al Santuario, il precipizio scompare, sommerso dalle nubi: né boschi né gole né burroni, solo un immenso mare di nuvole, tra cui le cime dei monti affiorano come isole solitarie. Sembra di stare sul tetto del mondo, e che basti sporgersi dal parapetto di legni incrociati per toccare il cielo con un dito. La Festa della Madonna del Pollino ha origini settecentesche. Da allora le processioni si susseguono a date fisse: la prima domenica di giugno la Madonna del Pollino viene trasportata a spalle da San Severino fino al monte, un percorso di circa 20. Km., dove rimarrà per tutta l’estate. Il primo sabato di luglio, i fedeli giunti dai paesi del Pollino calabro e lucano si riuniscono per la festa. Un tempo coincideva con la transumanza, quando pastori e boscaioli uscivano dall’isolamento di un territorio aspro e privo di mezzi di comunicazione e cominciavano ad animare la montagna con i greggi di animali. L’appuntamento per la Festa della Madonna del Pollino era un’occasione unica: nascevano amicizie, amori, e tra tutti si creava un patto di sangue: «Ci vediam u prossim anno alla Madonna del Pollin». Come dire: «Teniamo duro chè dobbiamo rivederci». E ancora oggi la gente si accampa davanti al Santuario con le tende o sui trattori, gli zampognari suonano e si balla per tutta la notte.
Le immense foreste del Pollino sono state nascondiglio ideale per i briganti, terrore dei ricchi proprietari terrieri, ma spesso sentiti dalla povera gente come eroi in lotta per il riscatto delle terre, capaci di vendicare la comune condizione di miseria. Di essi si narrano molte storie. Si favoleggia di tesori nascosti nelle grotte e di maledizioni ancora incise sulla roccia per scoraggiare il contadino che avesse tentato d’impossessarsene. Il brigante più importante della zona, Antonio Franchi, aveva la sua donna, la Brigantessa Serafina Ciminelli, a San Severino Lucano. Lo stesso paese dove il capitano nazionale della lotta contro il brigantaggio, Gennaro Jannarelli, rilevò il mulino che raccoglieva l’acqua del fiume Frido (oggi struttura alberghiera) trasformandolo nel polo industriale più importante della zona. Tra le tante tradizioni custodite dai paesi del Pollino lucano c’è quella della lavorazione della ginestra, di cui sono testimonianza gli Arbëreshë di San Costantino Albanese e san Paolo Albanese. Popolazioni in fuga dalle persecuzione turche, provenienti dal Peloponneso, che nel Seicento si stabilirono in Basilicata. I tradizionali costumi matrimoniali, corpetti ricamati in filigrana d’oro, gonne dalle mille pieghe, sono conservati nei loro musei etnografici e ancora oggi è possibile assistere all’affascinante vestizione di una donna. Le vecchie ricordano ancora la complessa procedura con cui la ginestra, dopo essere stata messa a riposare nel letto del fiume, veniva battuta, pettinata, cardata, filata e infine candeggiata con acqua e cenere o colorata con la radice della robbia o il mallo delle noci. Di ginestra erano fatte le antiche gonne, le sporte da lavoro, perfino le lenzuola.
Un fatto curioso sono gli enormi pupazzi antropomorfi in costume albanese che si possono vedere durante la festa della Madonna della Stella, importati da un compaesano di San Costantino che se ne innamorò durante un viaggio in Messico. Anche Carlo Levi – noto pittore e scrittore torinese confinato in Basilicata durante il fascismo, che nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli descrive la vita dei contadini lucani, e l’intimo rapporto che con loro s’instaurò – amò gli Arbëreshë. Infatti, ritornato nell’amata Lucania, poco prima della morte (la sua tomba è ad Aliano), ebbe il tempo di dipingere un ultimo affresco intitolato: “Giovani in costume tradizionale” sul muro del Circolo Culturale Vellamja” di San Costantino Albanese, che lì si può ammirare.
E se è vero che la Basilicata è una terra ancora genuina, non può mancare un accenno alla sua antica tradizione culinaria. «La cucina lucana ha molti simbolismi, è fatta di territori, di racconti. in Basilicata sono passati tanti popoli e ognuno ha lasciato la sua eredità gastronomica» dice Federico Valicenti, chef di fama mondiale che a Terranova di Pollino continua a gestire la trattoria “Luna Rossa”, da cui è iniziata la sua ricerca gastronomica. «Bisogna uscire dal concetto di cucina casereccia, che è quella della fame atavica, e rivolgersi alla cucina legata agli eventi cosmici della natura, in cui ogni singolo ingrediente ha un significato simbolico, e salvaguardare allevatori e coltivatori locali, che sono i veri artigiani del gusto».
Testo di Gabriella De Fina | Foto di Walter Leonardi
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