Lazio. Il covo del Brigante

Allorchè mi avvicino a quella boscaglia fitta e cupa dalla fama così lugubre ed arcana, avverto subito un brivido freddo correre lungo tutto il fondoschiena. Il suo nome è Selva del Lamone ed equivale all’italica foresta di Sherwood, perchè fu il rifugio del nostrano Robin Hood ottocentesco; Domenico Tiburzi detto “il Domenichino“, oppure il Re della Maremma. Duemila ettari di territorio protetto nel comune di Farnese, lassù nell’alta Tuscia che si sposa al confine con la selvaggia maremma grossetana.In una landa sperduta dalla natura ancestrale, tra la valle del fiume Fiora e le rovine dell’antica Castro, lungo il corso dell’Olpeta e le millenarie tombe etrusche. Prima di infilarmi tra gli anfratti e la vegetazione impenetrabile sento quasi quell’aura solenne da basso medioevo, con torrioni, contrade e nobildonne, di fronte ad una delle ultime terre incontaminate.



Cammino a fatica dentro l’impervio sottobosco di rovi, in mezzo a querce, faggi e cerri: in un mix perfetto di macchia mediterranea e tronchi d’alto fusto, adornati da bacche di corbezzolo color carminio. Supero spesso delle rotondeggianti pietre laviche che richiamano il leggendario Ercole, odorando finocchio selvatico, il lentisco e la ginestra, il tutto impregnato nel sentore umido del muschio e dei licheni.In estate si scorgono perfino delle orchidee selvatiche, mentre martella duro il picchio rosso e regale vola lo sparviero sui nembi candidi.La penombra spessa e fosca mi avvolge, coi raggi del sole giallo intensi dai riflessi eterei e verdastri che la trafiggono a stento, come fasci magici di vita nova che attraversano un corpo moribondo.Giunto dunque ad una piccola radura, noto un cartello al margine della strettoia con su scritto “il sentiero dei briganti“.Un percorso culturale che unisce insieme i comuni della zona, nella regione del brigantaggio post-risorgimentale, in quest’area dominata un tempo dal grande latifondo.



Mi riposo per mezz’ora in quel luogo dell’immaginario, tal che fossi fra elfi e folletti di saghe nordiche, pensando alle fate e pure a Cappuccetto Rosso, intanto che gli occhi cadono ammaliati sulla tinta violetto del geranio purpureo.Nel dissetarmi osservo dentro il cavo di un leccio, l’empio ragno immoto che attende la sua povera preda nella tela.Poi odo suoni lontani ed ovattati e lo strisciar leggero di qualche animaletto, mi sembra d’udire i passi infidi e felpati del Domenichino che s’era dato alla macchia, cercato dai richiami afoni di qualche suo compare di ventura.Districandomi avanti ancora, ascolto il gorgoglio sommesso di un ruscello stagionale, dall’acqua limpida simile alla fonte. Astuta e guardinga poco distante s’abbevera la volpe.


Inizio quindi a sentirmi un pochino stanco ma con tanta adrenalina ed il cuore in gola, quando arrivo al delimitare di un tipico”lacione” massaggiandomi le membra tremanti e già sudate, che m’imbatto alla sprovvista in un grosso cinghiale irsuto e setoloso, per giunta maleducato alquanto. Quello mi scruta appena, grugnisce e se ne va, quasi fossi un negletto indigeno dei miseri dintorni, o una mediocre bestiola di nessuna considerazione.Dopo molte ore sono infine fuori, in cima ad una collinetta bassa e tanto verde che domina il bucolico pascere di un gregge, nei toni pastello della sera ormai incipiente. Fra il crepuscolo del giorno che si spegne come una scheggia lucente che si perde nella notte, mi giro sfinito a salutare la foresta aspra.La tenebra inquietante la copre e la sommerge, nascondendo in breve quel tetro labirinto. Allora mi sovviene la “selva oscura”del divino Dante giusto all’inizio della sua Commedia………


Testo di Luigi Cardarelli   © RIPRODUZIONE RISERVATA | Foto web


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