Perù. Il silenzio dei Cocama


Nella regione di Loreto,  sulle rive del Maranon, vive la tribù dei Cocama abbracciata dall’ infinita Amazzonia. Un pugno di villaggi dove si parla una lingua che sta scomparendo.


Un ultimo frammento  di luce resiste caparbio al di là del fiume, fra gli alberi di questo tramonto amazzonico. Nella penombra più intima del suo lodge, Maria Elena Rau parla a voce bassa, quasi temendo di  disturbare il timido arrivo della sera. Intorno a noi soltanto una foresta infinita e un universo d’acqua che qui è vita o morte,  lavoro o disperazione, contatto o isolamento, secondo gli imprevedibili capricci della natura. Il Rio delle Amazzoni non è ancora completo, da queste parti;  le acque del Maranon saranno raggiunte da quelle dell’ Ucayali solo più a valle, nei pressi di Iquitos e di lì in poi diventeranno il fiume più lungo del mondo. Eppure il Maranon è già così imponente da incutere soggezione a chiunque, siano essi  indigeni residenti o viaggiatori occasionali, come noi, che stiamo ascoltando la storia di un popolo che rischia di scomparire per sempre. Maria Elena divide il suo tempo e la sua vita fra Iquitos e la riserva Pacaya Samiria; nella città cura gli interessi  commerciali del suo lodge, qui nella riserva tenta di salvare cultura e tradizioni dei Cocama, un’etnia dell’Amazzonia peruviana i cui villaggi sono sparsi nella vasta regione di Loreto, nella parte più settentrionale del Perù.



Inizialmente i Cocama erano pescatori, ma poi, con l’arrivo degli spagnoli, divennero combattenti, non disdegnando di razziare i villaggi di altre tribù. Nei secoli successivi furono progressivamente piegati dagli invasori europei e deportati come lavoratori a basso costo nelle miniere e nell’industria del legname. Solo a metà del XIX secolo, dopo l’indipendenza del Perù, alcuni gruppi tornarono nella foresta che era la loro patria, sulle rive dei fiumi amazzonici. Oggi  sono poco più di 10.000 e occupano una cinquantina di villaggi; poche altre decine sono dispersi fra Colombia e Brasile. L’impegno principale di Maria Elena è preservare la lingua Cocama, un idioma con caratteristiche uniche, che sta scomparendo in quanto gli anziani non lo insegnano più ai figli. I giovani, infatti, imparano lo spagnolo, lingua che consente di comprendersi  fra gruppi diversi e i genitori si vergognano di parlare con loro il Cocamilla, temendo anche di danneggiarli per il  futuro lavorativo. Maria Elena è  molto impegnata, in collaborazione con l’Università  Scientifica del Perù, per  ridare dignità culturale alla lingua, incentivando i più anziani a mantenerla viva. L’unico modo è spingerli ad insegnarla alle giovani generazioni,  perché lasciare morire una lingua, mi dice, è come condannarne il popolo al silenzio.



La signora Rau è interessata anche alla valorizzazione dell’artigianato tradizionale, quasi tutto opera delle donne, che utilizzano esclusivamente i prodotti della foresta e le lische dei pesci. Fino a pochi anni fa nessuno conosceva questi  manufatti, vere opere d’arte che restavano confinate nei villaggi. Nemmeno l’arrivo dei primi visitatori era servito a qualcosa: le donne rifiutavano, per vergogna, perfino di farsi vedere e nascondevano i loro lavori. Maria Elena, con l’aiuto degli psicologi, ha infranto i primi muri di diffidenza , riuscendo progressivamente ad aprire alcuni villaggi agli stranieri, che ora possono vedere tutto il processo di lavorazione dei prodotti artigianali, siano essi, monili o suppellettili. San Jorge è il villaggio più vicino al Lodge e con Maria Elena ci spostiamo con la canoa a motore per raggiungerlo.



E’ l’occasione per scoprire lentamente la selvaggia natura dell’Amazzonia peruviana. Incontriamo molte piroghe manovrate col solo aiuto dei remi, utilizzate dai locali per i piccoli spostamenti. Per raggiungere i villaggi più distanti  o la città, c’è un servizio pubblico di traghetti. Il Maranon ha molti affluenti, ognuno dei quali possiede caratteristiche proprie. Come il Rio Negro, che qui chiamano Yanayacu. Il nome deriva dal colore scuro delle sue acque, in forte contrasto con quelle marroni dei corsi d’acqua maggiori. Il fiume è molto piccolo e, fino al 1992, totalmente sconosciuto al di fuori della zona. Fu un giornalista, Alejandro Guerrero, a scoprirlo, chiamando l’area La Selva de Los Espejos (La Selva degli Specchi), per l’eccezionale gioco di riflessi creato dalla totale immobilità dell’acqua.





Questo è l’habitat ideale per molte specie animali, prima fra tutte la gigantesca anaconda, poi  l’iguana dalla testa rossa, il lamantino, il delfino rosa, moltissimi tipi di uccelli e il delizioso bradipo, che è facile incontrare mentre sale lentamente sugli alberi. Il connubio uomo-animali-ambiente da queste parti è pressoché  inscindibile e l’ecosostenibilità è nei fatti. E’ così che apprendo che i delfini rosa, a rischio d’estinzione, non vengono cacciati dalla popolazione indigena perché “ altrimenti quelli rimasti potrebbero arrivare di notte a rapire i bambini del villaggio. Maria Elena racconta che i lamantini sono protetti in quanto, se uccisi in modo indiscriminato, i figli del cacciatore “assumeranno il loro aspetto goffo e sgraziato”. Ad una svolta del fiume compare un paiche, il gigantesco pesce che può raggiungere anche i 100 kg.







Da secoli fa parte integrante dell’alimentazione degli indigeni, che lo consideravano  quasi un Dio; quando è diventato un piatto richiesto nei ristoranti alla moda, è stato decimato al punto che ora è protetto e i ranger dei parchi nazionali rischiano di essere uccisi dai pescatori di frodo per preservare la specie. Quando scendiamo dalla canoa per raggiungere le case di San Jorge, il desiderio di saperne di più è così forte da farmi pensare che qui dovrò tornare, per fermarmi quanto basterà a comprendere almeno un poco questa parte di mondo. Il presentimento diventa una decisione poco dopo, quando incontro lo sciamano del villaggio. Lo trovo seduto davanti alla sua casa, che ha il tetto di paglia come le altre,  ma è un po’ più grande.  Indossa una camicia bianca e un paio di bermuda di jeans. Potrebbe essere una persona qualunque del villaggio ed invece è il detentore della storia del suo popolo, perché lui ha il contatto con gli spiriti, sia quelli benevoli, che guariscono dalle malattie, che quelli maligni, capaci di uccidere.





Entriamo, sedendoci sul pavimento di terra, uno vicino all’altro e parliamo di tante cose. Poi si alza e mi chiede se voglio che faccia un rito per me. Acconsento. Prende alcune foglie e le bagna; poi le passa più volte sulla mia testa e sul petto. Intanto parla una lingua misteriosa e guarda gli spiriti che lui solo vede. Sembra stia recitando delle preghiere. Accende una sigaretta e soffia più volte il fumo sulla mia testa. Le sue mani sfiorano i capelli, le spalle, il tronco. Io non le sento, ma percepisco qualcosa che assomiglia ad un ronzio lontano. Non entra mai in trance, ma continua a sussurrare parole che solo lui conosce. Quando il rito finisce, mi guarda negli occhi e sentenzia: “ Amico mio, avrai battaglie non facili da combattere e le malattie non mancheranno di sfidare la tua salute, ma gli spiriti del bene avranno la meglio, perché loro sanno che tu hai una promessa da mantenere con te stesso: tornare sul grande fiume dove, tra gli alberi, un ultimo frammento di luce sarà lì ad attenderti.”


Testo di Pier Vincenzo Zoli | Foto di Mauro Camorani

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