Viaggio in Guatemala. Un quadro a colori



Diario di un viaggio in Guatemala, Paese che può essere immaginato come un grande quadro a colori.

Lago Atitlàn

Sono le 7 del mattino quando saliamo a bordo del battello che ci condurrà sull’altra sponda del Lago Atitlán. Nonostante il sole sia sorto da poco, i raggi obliqui e il riflesso sull’acqua sono accecanti. Tutt’intorno, si alzano imponenti le montagne e le pendici dei vulcani sono coperte da distese di mais e fitti boschi. In poco meno di un’ora, raggiungiamo Sanpedro La Laguna, una cittadina dove le donne indossano ancora gonne color porpora sostenute da fasce strette in vita e gli anziani portano ampi pantaloni a righe bianche. Superato il chiosco di un vecchio intento a spaccare noci di cocco con un machete per estrarne il latte, saliamo su un tuk tuk guidato da un ragazzo di vent’anni. Ne dimostra una decina in meno ed è diventato guida turistica grazie alle informazioni e ai racconti della nonna. La prima tappa del tour che ci propone è il Parque de Paz, una piccola piazza in cui 13 lapidi ricordano il massacro consumato il 2 dicembre 1990 per mano dell’esercito nazionale, responsabile della sparizione di centinaia di indigeni e presunti guerriglieri di sinistra.

Proseguiamo poi verso la lavandería, animata fin dal mattino da un gruppo di donne impegnate a lavare gli abiti di Maximón, il dio maya più venerato nell’altopiano. Abbiamo l’onore di varcare la soglia della casa in cui risiede la divinità, che cambia ogni anno per non generare dissapori e pericolosi giochi di potere all’interno della comunità. La statuetta di legno è riccamente abbigliata e tiene una sigaretta Payaso tra le labbra, una delle offerte portate dai fedeli insieme al rum Venado, frutta e pezzetti di carne secca. La luce delle candele è tremula, i profumi degli incensi nauseanti. La musica che proviene dal mangiacassette, Jingle Bells e Astro del Ciel, si confonde con la cantilena di una preghiera intonata da alcune donne inginocchiate in un angolo. Sul lato opposto, giace il padre di Maximón, deposto in una teca di vetro e avvolto in un groviglio di lucine lampeggianti. Anche la nostra prossima meta testimonia il sincretismo incarnato nel tessuto sociale indigeno: lungo le pareti della Iglesia Parroquial Santiago Apóstol si susseguono statue di santi abbigliati in tessuto e sull’altare sono rappresentate pannocchie di granturco, l’elemento che secondo le credenze maya generò l’umanità, oltre a un angelo, un leone, un quezál e un cavallo, simboli, secondo la fede locale, dei quattro evangelisti; sulla sinistra, un poster di Karol Wojtyla. Ripartiamo quindi alla volta di Chichicastenango e del suo vivacissimo mercato.

Chichicastenango

Il labirinto di viuzze e vicoletti è avvolto in una coltre di nebbia che si sta lentamente dissolvendo dopo la notte di pioggia. L’umidità penetra nelle ossa e i raggi del sole tentano di superare il lenzuolo grigiastro che protegge la piazza centrale di Chici. Sono le sei del mattino. Alcuni commercianti dei villaggi vicini stanno allestendo le bancarelle già dalla sera precedente, altri sistemano gli articoli su alte strutture, servendosi di aste di legno. Il viavai aumenta, i colori si illuminano e l’atmosfera si anima. Ragazze sorridenti invitano a sedersi per la prima colazione: latte in polvere diluito in acqua bollente con abbondanti porzioni di fiocchi d’avena e pollo fritto accompagnato da riso bianco, papas, stufato di fagioli e carne de res per i più coraggiosi. Fumi e vapori, puzze e profumi si alzano dai pentoloni neri incrostati di fuliggine. L’olio sfrigola nelle padelle e gli avanzi si accumulano sotto le lunghe tavolate. Le bambine abbrustoliscono fin dal mattino le tortillas, servite a ogni ora del giorno. Banane più o meno mature, ananas, meloni e angurie, lichi e frutti della passione, oltre a pomodori, broccoli, cavolfiori, cipolle panciute e carote sovradimensionate, zucche e tuberi sconosciuti accanto a ceste colme di mais e varietà di fagioli mai viste. È un trionfo di gialli che sfumano nell’arancione e nel rosso, nel carminio fino al violaceo, per passare al bianco che contrasta con il nero, al verde acido che si scioglie nell’ottanio e nel cobalto. Visi dalla pelle levigata e volti solcati da profonde rughe, adolescenti già donne e anziane dall’occhio vispo di ragazzine. E, ancora, capigliature corvine e lunghe trecce striate di bianco, bambini in divisa e lattanti in fasce addormentati tra le stoffe esposte sui banchi. Qualcuno è in piedi e qualcuno è seduto, impegnato nella contrattazione o pigramente abbandonato a se stesso, nella sonnolenta attesa di acquirenti. Ci avviciniamo a un gruppo assiepato intorno a un uomo che sta spiegando in lingua locale i poteri taumaturgici di pozioni e misteriosi intrugli. Ci lanciamo poi nella contrattazione, tra tovaglie, stole, amache e cinture, borse, babbucce e bambole di pezza, pantaloni da uomo ed eleganti gilet, gioielli di finta giada e vasellame in terracotta. In un batter d’occhio è mezzogiorno. Tentiamo quindi di farci strada tra la folla e di raggiungere la stazione degli autobus.

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