Catalunya, il giorno dell'indipendenza

BARCELONA-Esistono celebrazioni popolari costruite sulla tradizione e radicate nel passato di una terra; Poi ce ne sono altre che trascendono il passato e si proiettano verso il futuro riponendo tutte le speranze del cambiamento nel presente. Il giorno del dia de Catalunya inizia per me nel quartiere di Cornellà, alla periferia di Barcelona, e anche il turista meno scaltro si renderebbe conto che in giro si organizza qualcosa di grosso. Per le strade c’è un flusso continuo di famiglie, giovani e anziani tutti bardati con magliette, sciarpe giallo-rosse e Esteladas, le bandiere dell’indipendentismo catalano. Sembra una festa in maschera o la vigilia di una partita della nazionale di calcio. Tutti si incamminano verso autobus, tram e metropolitana per convergere verso il centro della città e per formare con la propria presenza una enorme V visibile dal cielo.

Catalunya

La Asemblea Nacional Catalana ha organizzato questa imponente coreografia disegnando una enorme V di 11 chilometri lungo le due principali arterie di Barcelona, Gran Via e Diagonal, e formata da una marea umana di un milione e mezzo di manifestanti catalani. La V rappresenta Vittoria, Voto, Il messaggio verso Madrid è chiaro: l’indipendenza subito, come rivendica lo slogan sulle 22.000 magliette vendute in poco meno di 5 ore, che recita Ahora es la hora (ora è l’ora). Fino a dieci anni fa l’11 di settembre era per la Catalunya semplicemente il giorno della Diada, la festa nazionale della comunità autonoma; oggi la recessione spagnola e il malcontento popolare hanno fatto guadagnare consenso ai partiti nazionalisti catalani e la festa folcloristica ha acquisito una valenza marcatamente politica. Le strade del capoluogo sono addobbate a festa e da quasi ogni finestra pende una bandiera di rappresentanza, le insegne della monarchia spagnola sventolano timidamente solo sui palazzi governativi, circondati da migliaia di cittadini provenienti da ogni angolo della regione. Intorno a me smetto di sentire parlare spagnolo sebbene tutti siano bilingue: anche la comunicazione è un elemento strategico di omogenizzazione culturale. Oggi tutti si sentono parte di un tutt’uno, oggi più che mai ci si sente invincibili stando uniti, domani la palla ripasserà ai vertici politici ma l’11 di settembre è la festa di chiunque indossi qualcosa di giallo e rosso e si è tutti protagonisti.

Mi stupisce l’estrema civiltà con cui questa gente viva un momento carico di tanta simbologia: non una virgola fuori posto, sembra di essere in Danimarca, anche se i 27 gradi di fine estate ricordano il clima mediterraneo. Passeggio in compagnia di una ragazza di Barcellona, forse una delle poche persone in mezzo a quella folla infinita a non credere nell’indipendenza. Ci muoviamo a slalom tra bandiere e gruppi in festa fino all’Arc de Trionf, dove un’enorme Estelada sventola tra le due arcate. In fondo al viale, adiacente al Parc de la Ciutadella (sede del Parlamento de Catalunya) troneggia un enorme palco su cui si esibiscono dei gruppi musicali, ovviamente tutti a tema. La mia amica mi fa notare che dagli accenti delle persone molti provengono dalla provincia di Girona. I catalani sanno fare le cose per bene, e nell’organizzare i loro interessi sono impeccabili. L’anno prima erano riusciti a mettere in piedi un’enorme catena umana che attraversava la Comunidad dal confine francese con quello della Comunidad Valenciana. La diada acquisisce anche i connotati “internazionali” perchè mira a riunire sotto un’unica nazione sovrana tutte le terre catalano-parlanti, les pobles catalanes (i paesi catalani) come li chiamano loro, di cui fanno parte anche Valencia, le isole Baleari e una parte dell’Aragona.

Barcellona

Parlare con i più radicali vuol dire sottoporsi a un esame di storia nazionale approfondito perchè la macchina mediatica ed educativa di Barcelona ha saputo fornire ai cittadini gli strumenti giusti per poter argomentare il desiderio di secessione dal Regno Spagnolo. Daltronde la crisi economica che ha colpito l’Europa è stato un ottimo deterrente per spingere ulteriormente sulla divisione; I partiti indipendentisti hanno saputo giocare a loro vantaggio la carta della crescente disoccupazione e la contrazione della produzione. Dal 2012 in Catalunya hanno imprese di piccole dimensioni. La battaglia è giocata soprattutto sul piano fiscale, essendo la regione più ricca (produce il 23% del Pil spagnolo), è quella in cui il gettito fiscale è più pesante, e la maggior parte delle imposte prelevate da Madrid non ritorna indietro. Da quando esiste il Parlamento catalano, cioè dal 1980, i governi indipendentisti che hanno guidato la Comunidad non hanno mai preso meno del 55% dei voti. I dati evidenziano come i massimi raggiunti da questi ultimi siano stati sempre stati toccati in periodi economicamente difficili, come in occasione delle elezioni del 2012 quando la coalizione Convergencia y Uniò guidata da Artur Mass conquistò 1.200.000 voti portandosi a casa 40 seggi su 135 e piazzandone 16 al Congreso dei deputati a Madrid. Percorro Passeig de Lluis Companys cercando di non calpestare il tappeto umano accampatosi sulle aiuole mentre mi accingo a raggiungere un caro amico, lui sì indipendentista fino al midollo. Mario ha 23 anni e abita in un paese a venti minuti di macchina dal centro della città. In famiglia parla spagnolo, perchè i suoi genitori sono andalusi, ma le radici famigliari non gli hanno impedito di sposare la causa indipendentista. L’argomento è molto delicato, e non è il luogo adatto per affrontarlo in maniera critica dato che è prima di tutto un giorno di festa e di memoria verso quell’11 settembre del 1714, quando le truppe borboniche irruppero in città mettendo fine al regime di autonomia della regione e instituendo di fatto El Regimen de Nueva Planta, il vincolo di subordinarietà verso Madrid.

Manifestazione indipendentista

Quando riesco a scovarlo tra una distesa di ragazzi che hanno fatto delle loro bandiere delle tovaglie da pic-nic sul prato per sorseggiare birra e assaggiare salumi, lo trovo raggiante ed orgoglioso, come se stesse festeggiando l’esito positivo di un referendum per la secessione dalla Spagna. Mi mostra subito le foto come se avessi il compito di divulgare in Italia il resoconto di quella mastodontica manifestazione di forza. Ci tiene a che mi renda conto della reale portata del corteo, e mi spiega nei dettagli ogni passaggio, è quasi commovente. L’influenza di queste giornate sulla coscienza dei catalani è tutto, e a una settimana esatta dal referendum per l’uscita dal Regno Unito a cui sarà chiamato il popolo scozzese, si respira ancora di più la speranza che possa toccare anche a loro. Da Madrid però non ne vogliono sapere di concedere ulteriore autonomia alla vera locomotiva nazionale, che di fatto sta trainando un treno fatto di vagoni arrugginiti e al limite della bancarotta, come la Comunidad Autonoma di Madrid, o l’Extremadura. Si percepisce fastidio nelle sue parole e quelle degli amici che lo accompagnano, quando per sbaglio, o forse per ingenuità, li chiamo spagnoli e mi rivolgo alla Catalunya come se fosse una regione all’italiana. In certi momenti non ha senso fare notare che le ragioni su cui basano il loro concetto di stato risalgono all’epoca medioevale, e che di fatto uno stato o regno catalano non è mai esistito come tale.

Nemmeno lo sarebbe dire che, in un’epoca in cui è opportuno puntare su un’Europa unita e cooperante, un sentimento di divisionismo e nazionalismo regionale assomiglia molto a un passo indietro dal punto di vista culturale rispetto che a una sostanziale conquista. L’ennesimo gruppo sale sul palco per suonare, la gente attorno a me è felice e si gode la festa. Io saluto Mario e mi dirigo verso la stazione dei bus per partire alla volta di Madrid, mi sento quasi un traditore tra quelle bandiere al cielo e le facce dipinte dei giovani. All’altezza di Carrer de Aragon c’è una fila interminabile di autobus con cui 200.000 manifestanti hanno raggiunto la capitale. Ne ho visti così tanti solo in occasione della mancata promozione del Genoa in serie A a Piacenza e alla manifestazione per l’articolo 18 a Roma nel 2001. I bar sono stracolmi di gente per l’ultima birra in compagnia prima del loro ritorno a casa. In cielo il sole sta scomparendo deitro i palazzi dell’Example e l’atmosfera festaiola si spegne piano piano. Dalle tv dentro i bar si assiste ai dibattiti politici, ogni canale ne trasmette uno. La macchina mediatica catalana si è già messa in moto.

Testo e foto di Stefano Pampuro| RIPRODUZIONE RISERVATA © LATITUDESLIFE.COM

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