Ultima frontiera del Cile prima che inizi il “Sud profondo” e via d’accesso alla Patagonia, l’Araucania è la selvaggia regione che ha visto crescere Pablo Neruda, tra i villaggi degli indios Mapuche, la capitale Temuco, gli affascinanti paesaggi delle Ande e i grandi parchi naturali che hanno ispirato i suoi capolavori.
“Chi non ha mai visto lo scarmigliato bosco cileno, non conosce questo pianeta”, scriveva con orgoglio Pablo Neruda, ripensando ai boschi, i laghi e le montagne dell’Araucania, i paesaggi sconfinati che lo hanno accompagnato nei suoi anni più giovani, incantandolo. Ultima frontiera prima della Patagonia, questa regione del Cile stretta tra Oceano e Ande è un trionfo di colori e profumi, “un mondo verticale, una nazione di uccelli, una moltitudine di uccelli”. A cominciare dalle araucarie, i colossali pini che danno il nome all’intera regione. Silenti patriarchi che parlano solo se interrogati dal vento e che ci accolgono con la loro maestosa diffidenza lungo il nostro percorso nel Parco Nazionale del Conguillio, prima tappa di un itinerario che dalla capitale Temuco scende verso sud. Chilometri di strada a solcare la più importante foresta pluviale temperata del mondo, un vibrante spettacolo naturale dove tutto è pace.
Sono in molti a dire che senza il verde sconfinato di queste foreste e lo scroscio ininterrotto di queste acque impetuose, Neruda non sarebbe mai stato Neruda. Anche lui stesso ne era convinto, quando scriveva, “In questa frontiera nacqui alla vita, alla terra, alla poesia e alla pioggia”. Pioggia che cade incessante per nutrire questa metropoli di piante, un regalo di Madre Natura che accompagna tutto il nostro viaggio.
Tra i grandi parchi e il mare, sullo sfondo di queste bellezze da cartolina, vivevano i Mapuche, signori di questa regione prima che i conquistadores spagnoli li spazzassero via. Detti anche “Popolo della Terra” e noti per il loro spirito indipendente, gli Araucani erano divisi in tanti villaggi, ed è proprio nelle foreste del sud che molti di loro hanno trovato un rifugio alla furia del colonialismo spagnolo, cibandosi di pignon, i gustosi frutti delle araucarie, e salmoni pescati con le mani dai freddi fiumi che dalle Ande scendono verso valle.
Il Parco Nazionale Conguillio è nato una cinquantina di anni fa per proteggere le araucarie: un territorio vastissimo di più di 60.000 ettari, praticamente vergine, con laghi verdissimi, canyon profondi, foreste preistoriche e deserti di lava. Qui ci sono piante che vanno dai 600 ai 1200 anni di età, dominate dalla potente sagoma del vulcano Llaima. Un triangolo perfetto ammantato di bianco in prossimità del vertice, dove il ghiaccio fa a pugni col fuoco e, ogni tanto, insieme, partoriscono un fango incandescente che in passato ha compiuto flagelli. Mostro di 3125 metri con una bocca larga 350, è il vulcano più attivo del Sud America, che con le sue feste di luce e calore ha creato questo capolavoro della natura. Un paesaggio incantevole che per i Mapuche sarà ormai un’abitudine visiva, ma per me è sconvolgente. Guardo fuori dal finestrino, mentre si staglia davanti a me l’imponente cratere scavato dalle potenti acque del fiume Truful, uno dei più importanti del parco, meraviglia geologica che attira esperti da tutto il mondo. “Ma è tutto vero?”, chiedo alla guida Miguel, come un bambino incantato da una favola, e mi sento un po’ più selvaggio anch’io, immerso in questa trama infinita di bellezze naturali.
“Camminando, attraverso un bosco di felci molto più alte di me: mi lasciano cadere in viso sessanta lacrime dai loro freddi occhi verdi, e al mio passaggio i loro ventagli tremolanti oscillano a lungo…”, così scriveva Pablo Neruda, e probabilmente aveva avuto le stesse sensazioni che abbiamo noi oggi fendendo a piedi il sottobosco del Parco nazionale Puyehue, altro tassello di quel puzzle naturale che è l’Araucania. Come stille di sangue, i fiori rossi che i Mapuche chiamano copihue punteggiano il verde cupo. Non per niente il poeta li chiamava “gocce arteriali della selva magica”. Seguendo la loro traccia arriviamo al cospetto della cascata dell’Indio, il cui scroscio fragoroso copre il veloce guizzo in superficie dei pesci, cibo fresco e pronto che il bosco regala alle tribù dei suoi rispettosi abitanti, sempre pronti a ringraziare per i doni ricevuti dal cielo. “Quei piccoli torrenti, nati sulle vette delle Ande, precipitano, scaricano la loro forza vertiginosa e travolgente, rompono terre e rocce”, scrisse ancora Neruda, e ancora una volta siamo qui, a verificarne con gli occhi e il cuore le parole.
Sulle orme del grande poeta, abbandoniamo la foresta per spostarci a Temuco, la città più importante dell’Araucania, dove la famiglia Neruda ha vissuto per molti anni, lasciando segni indelebili nell’immaginario del giovane Pablo. La casa in cui abitò da bambino, occupata oggi da un anziano ferramenta che di lui conserva un ricordo sfumato dal tempo, il liceo che porta il suo nome, dove ormai i ragazzi usano meglio lo smartphone che la penna eppure fanno gli onori di casa e ci dicono orgogliosi che sì, “don Pablo Neruda studiò proprio qui”, la vecchia ferrovia, con i treni che sono rimasti tali e quali a quando lui non aveva nemmeno diciott’anni e il padre, ferroviere, tornava a casa con le mani annerite dal grasso e dalla fuliggine.
Come tutte le capitali del mondo, anche la piccola Temuco è cambiata con il passare degli anni. Non ci sono più i legnaioli e i ferrovieri dell’infanzia di Neruda, ora è sede d’università, i negozi si susseguono, non siamo molto lontani dall’idea di metropoli. Guardi i volti, tratti europei, quasi immancabilmente. L’impronta nativa, i caratteristici lineamenti dei Mapuche te li devi andare un po’ a cercare, visto e considerato che ormai rappresentano non più del quattro per cento della popolazione cilena. Erano soprattutto agricoltori, pescatori, allevatori, dicono i libri di storia. E straordinari artigiani e cesellatori, soprattutto per quanto riguarda la lavorazione della pietra. Non per niente di oggettini intagliati rigurgitano le botteghe che esploriamo a Temuco, ma se Neruda fosse accanto a noi ci suggerirebbe luoghi più genuini in cui respirare l’atmosfera dell’antica etnia. Il mercato del bestiame, per esempio, surreale compravendita di bovini che si tiene tutti i giorni in pieno centro. Oppure di tornare nelle grandi distese del sud, quella catena di spettacoli che salutiamo in una giornata piovosa dall’aereo del ritorno e che custodiremo in un cassetto di ricordi e meraviglia.
Testo di Giorgia Boitano | Foto di Vittorio Giannella.
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