Mongolia, la terra della aquile

Altipiani e steppe infinite, un’escursione termica che fa ribollire e poi gelare il sangue. Una terra estrema, dove le tribù nomadi praticano la caccia con le aquile dai tempi di Gengis Khan.

Il primo occidentale a descriverli fu Marco Polo; l’eleganza, la regalità con la quale Kublai Khan, da autentico sovrano, teneva l’aquila sul braccio, evidentemente colpì molto il nostro esploratore veneziano. Già allora, nella seconda metà del XIII° secolo, la caccia con le aquile era praticata dai regnanti come esibizione di potere, con migliaia di falconieri che accompagnavano il feroce condottiero mongolo nella caccia alla selvaggina. Da sempre patria dei nomadi, tanto che da qui pare sia partita 25.000 anni la grande migrazione nelle Americhe attraverso lo stretto di Bering, la Mongolia è uno dei paesi che meglio conserva le proprie tradizioni, quelle tradizioni che siamo andati a riscoprire nella Mongolia occidentale, dove 250 falconieri praticano ancora la caccia con l’aquila.

Steppe e ghiacciai

Il viaggio parte da Bajan-Olgii, una polverosa cittadina di 20.000 abitanti ai piedi degli Altai, per proseguire all’interno delle steppe mongole, in un percorso tortuosissimo che dura almeno due giorni al volante delle inarrestabili Uaz. Altopiani e distese infinite si susseguono per chilometri in quello che è il secondo stato più grande al mondo senza accesso al mare e che un tempo, sotto la guida di Gengis Khan, faceva parte del più vasto impero della storia, con una estensione territoriale che andava dalla Corea alla Polonia.

Con nemmeno 3 milioni di persone, di cui la metà residenti ad Ulan-Bator, la Mongolia ha la più bassa densità di abitanti al mondo e in questo habitat sconfinato sono solamente le gher dei pascoli invernali l’unico punto di riferimento per chiunque si avventuri in queste remotissime aree. Si guida per ore ed ore, in mezzo alla steppa, che in russo significa proprio “pianura secca”, in uno degli ecosistemi più duri della terra e con le più elevate escursioni che, in alcune zone, vanno dai +40° in estate ai -40° in inverno. Lo scopo, la vera missione di questo viaggio, è l’incontro con gli la popolazione nomade kazaka che vive nella regione nord-occidentale della Mongolia, al confine fra Cina, Khazakhistan e Siberia, laddove gli Altai corrono per 600 chilometri con cavità, laghi blu, ghiacciai e pareti a strapiombo con picchi di 4.000 metri, un luogo fra i più affascinanti di questo paese, l’habitat scelto anche dal più elusivo fra tutti i felini al mondo: il leopardo delle nevi.

Lo Tsambagarab National Park racchiude in estate i verdi pascoli, dove centinaia di nomadi dell’etnia kazaka si sono rifugiati in queste terre molti secoli fa. E’ qui, in queste sconfinate pianure che vivono ancora i cacciatori con le aquile, praticando questa attività con la stessa tecnica di un millennio fa. Sailau, un pastore sulla soglia dei 70 anni, ci accoglie nella sua gher facendoci accomodare in semi-cerchio attorno al suo tavolo. Mangiamo carne di agnello, pasta di farina e acqua, formaggio di yogurt essiccato, bevendo latte di giumenta fermentato. E soprattutto ascoltando le sue storie. Difficile pensarlo vista la sua grande modestia, ma è stato proprio lui il protagonista della serie televisiva “The Human Planet” mandata in onda dalla BBC.

Un cacciatore mongolo

La caccia con le aquile è una tradizione secolare che i pastori kazaki continuano a tramandarsi facendo sopravvivere la loro identità di nomadi, trasmettendo nel loro sguardo tutta la fierezza di un popolo che fino ad oggi non si è lasciato conquistare dal progresso. Catturare un piccolo di aquila dal proprio nido è la prima cosa che si deve imparare e non è certo un’operazione semplicissima. Ci si avvicina al nido, sempre ben nascosto e in vetta alle montagne, quando mamma aquila è uscita per la sua personale battuta di caccia e lo si fa proteggendosi il corpo con una specie di scudo per mimetizzarsi meglio. Una volta sottratto l’aquilotto, che sarà sempre femmina perché più robusta e aggressiva, verrà portato nel campo dove inizia un lungo periodo di addestramento che va da giugno, il momento in cui vengono prelevati dal nido, fino ad ottobre, e che consisterà in una dieta costituita a base di carne di lupo e di volpe rossa per abituarla all’odore delle prede che l’aquila un giorno caccerà. La stagione della caccia viene solitamente svolta nei mesi invernali, da novembre fino a marzo, con temperature che toccano i 40 gradi sotto lo zero.

Cacciatore a cavallo

Una volta tolto il cappuccio dalla testa l’aquila si stacca dal braccio del cacciatore, librandosi nelle immense distese imbiancate e volando anche per 10 chilometri nella steppa fino a piombare sulla preda, ghermirla e attendere l’arrivo del cacciatore. Fra i due ci sarà un patto: all’aquila andrà la carne della preda, al cacciatore la pelliccia per farne indumenti. Ma i cacciatori con le aquile hanno un loro codice etico e, pur tenendo in un certo qual modo prigioniera l’aquila che comunque torna sempre dal cacciatore dopo ogni battuta di caccia, a 9 anni viene lasciata libera per sempre, di solito in estate, quando non avrà nessun problema a trovare le sue preda; per questo che non farà più ritorno. A pochi chilometri dalla gher di Sailau vive Agalai, un altro nomade kazako, un altro cacciatore con le aquile. Agalai ha tre figlie e l’ultimogenita, Aisholpan, una fanciulla di appena 13 anni, ha deciso di raccogliere l’eredità del padre. Sarà lei che fra pochi giorni andrà a caccia nelle steppe innevate, sarà lei la prima “lady eagle” della storia.

Testo e foto di Luca Bracali RIPRODUZIONE RISERVATA © LATITUDESLIFE.COM

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