
Sono le quattro del mattino ed è ancora buio pesto quando esco dalla casa di Via Roma, accompagnato (ho solo tredici anni) dalla governante factotum della zia Carla: la piccola, scurissima e affettuosissima Angelamaria, entrata a servizio bambina e ora parte essenziale della famiglia presso la quale lavora da sempre.
Angelamaria sembra uscita da un libro di favole che raccontano di orchi, draghi, principesse e vecchie serve devote; come lei, appunto. Angelamaria è piccola di statura, minuta e ha capelli, occhi e sopracciglia nerissimi. Al punto – mi viene da pensare – che potrebbe essere la governante di un orco panciuto e peloso, grosso cinque volte lei.
Ma ora, mentre continuo a fantasticare perché sono sveglissimo malgrado l’ora, la sua mano mi regge forte e sicura, mentre attraversiamo il centro storico di San Giovanni Fiore e superiamo in agilità (lei per consuetudine, io perché giovane) le vie a saliscendi del borgo.
Siamo diretti a Palla Palla, piccola frazione periferica il cui nome mi diverte moltissimo; lungo la circonvallazione del paese, verrò infatti preso in carico da uno dei molti grossi camion carichi di enormi tronchi d’albero che arrivano dalla Sila Grande e sono diretti al porto di Crotone, sullo Jonio.
Mentre i tronchi verranno imbarcati sulle navi in attesa, io verrò scaricato in piazza Pitagora dove il fratello della zia Carla, lo zio Alberto, che qui abita e lavora per la Montecatini, mi aspetterà e mi ospiterà per il mio mesetto di mare, dopo i quasi due mesi di montagna!
Camion e rimorchi con gli alberi di Calabria

Eccolo che arriva, il grosso camion con rimorchio, carico di legname. Avanza lentissimo con i fanali accesi che illuminano le ultime avvisaglie di una nebbiolina in dissolvimento. Salvatore apre lo sportello di destra del camion e Angelamaria mi aiuta a salire con la mia piccola valigia, ma vengo subito preso in consegna (con valigia) dalle manone possenti dell’autista; i due chiacchierano un po’ e intuisco che la donna recita una sfilza di raccomandazioni in dialetto stretto, mentre l’omone risponde a monosillabi di stare tranquilla, annuendo col testone ad ogni nuova raffica di parole.
E si parte. Oddio, ci si muove in leggera discesa sulla vecchia provinciale tutta curve e controcurve e io, dopo una decina di minuti, ho già fatto amicizia con Salvatore (chiamami Turi) condividendo un pezzo della sua fetta di pane nero con soppressata piccante, seguita da mezzo bicchiere di vino.
Dalla cabina il panorama è bellissimo! Anzitutto il cielo: manca poco alle cinque ma il buio è oramai un ricordo; la giornata è luminosa e il veicolo – grazie alle curve ora a destra ora a sinistra e i tratti in leggera discesa o in impercettibile salita – non fa che concedere scorci e visioni che cambiano in continuazione.
Turi mi mostra, a sinistra e in alto, il paese di Castelsilano già illuminato dal sole. La vecchia strada provinciale richiede perizia nella guida perché non sono pochi i punti nei quali il terreno sottostante scivola verso il basso precipitosamente: al fondo del vallone ancora tutto in ombra, scorre il fiume Neto.
Le strade del Presepe

Ora il veicolo col suo prezioso carico attraversa una specie di falsopiano dal quale emergono cocuzzoli di montagna: alcuni sono glabri, altri verdissimi; ma quello che ospita (quasi ci fosse spalmato sopra) il minuscolo paese di Cerenzia dove stiamo per giungere, è davvero straordinario.
Percorrere col grosso camion la viuzza principale mi dà l’immediata sensazione di vivere un paesaggio del quale ho letto parole e visto immagini più volte e per tale motivo familiare: quello di Betlemme, con le stradine invase da pecore e pastori.
Qui a Cerenzia non ci sono pecore ma qualche passante mattiniero lo vediamo, io e Turi; all’improvviso e ridacchiando fra sé l’autista recita, cantilenando sulla rima, una breve strofa: “Caccuri e Cerenzia, i paisi ‘e raciotia!” frase che subito traduce dicendo che quello che stiamo attraversando e l’altro, Caccuri, che fra poco raggiungeremo, sono i “paesi degli stupidi (cioti)”; più che stupidi, aggiunge subito, litigiosi da sempre per storie di chiese e di campane; roba da paesani, insomma.
La vecchia provinciale è sempre a tornanti ma in continua discesa, ora. Tra boschi e pascoli che fiancheggiano il cammino, i piccoli insediamenti della Sila piccola si sommano gli uni agli altri: Altilia, Santa Severina, dove io e Turi facciamo una veloce colazione: caffe e latte per me con una fetta di pane nero, un caffè scuro come la sua barba non rasata per lui.
Legname vista mare!
Sono quasi le nove quando entriamo con il prezioso carico nelle strade del Marchesato; quasi quattro ore di camion sono tante, ma poi penso al peso del legname trasportato, alle difficoltà del percorso affrontate, alla necessaria ridotta velocità e tutto finisce per essere chiaro.
La zona del Marchesato è caratterizzata da piccole colline e da zone pianeggianti percorse da alcuni fiumi e torrenti; ora c’è più gente nelle strade dei piccoli centri che si toccano e poco prima dell’arrivo a Crotone, sul mare, è necessario affrontare la modesta salita di Cutro, il paese dell’entroterra prossimo alla città di Pitagora (questo lo sapevo prima di arrivare in Calabria!).
Salendo, il mezzo sbuffa e arranca, ma poi c’è il lungo rettilineo nel quale Turi aumenta ragionevolmente la velocità, facendomelo notare; finalmente il porto, dove camion e rimorchio vengono consegnati per le operazioni di imbarco dei tronchi.
Turi prende la mia mano nella sua manona e mi accompagna in piazza Pitagora, qualche centinaio di metri dal porto dove, alla fine di un viaggio per me emozionante, vengo consegnato allo zio Alberto ingegnere della Montecatini, per la mia vacanza di mare.
Libertas Dicendi n°364 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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