Eritrea. Dahlak, isole di pescatori

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Sono circa 360 e galleggiano pigramente di fronte alla costa dell’Eritrea. Sono le Dahlak, un arcipelago fortunatamente ancora poco conosciuto e frequentato, ma noto ai tempi dei romani per la ricca produzione di perle, dichiarato parco marino naturale.

Quasi tutte di origine corallina, le isole sono in genere costituite da tavolati di corallo fossile, alti sulla superficie del mare soltanto qualche metro, con coste interrotte da spiagge assolate e deserte dove è facile trovare fossili molto interessanti.

Solo su quattro, le più grandi, si trovano dei poveri villaggi dove la gente vive di pesca: Dahlak Kebir, Norah, Dehel e Dissei. Su quest’ultima – che ha una forma allungata ed è l’unica dell’arcipelago a presentare una formazione rocciosa e delle alture, ricordo, probabilmente, di una remota attività vulcanica – vivono i pescatori Afar che seguono uno stile di vita tradizionale.

Le donne di questo villaggio, avvolte nei loro parei multicolori, appena scorgono un volto estraneo apprestano una sorta di mercatino sulla spiaggia per offrire i loro piccoli, grandi tesori: cipree, coralli e collane in cui si alternano perline e piccole conchiglie. Alte, occhi luminosi, sorriso dolcissimo, sono molto belle, ma come tutte le mussulmane non amano essere fotografate.

Le altre isole, a volte piccoli lembi di sabbia bianca, sono abitate solo dal vento, dalle onde che si frangono, da qualche acacia ad ombrello, dai granchi e da alcuni uccelli che ne fanno la loro base ideale per nidificare. Immergersi nelle acque che le lambiscono rimane un’esperienza entusiasmante, a volte unica, non solo per la particolarità e la ricchezza della flora e della fauna marina, ma anche per le situazioni che si possono creare.

Sono le stesse acque in cui si sono immersi nel 1952 i componenti della Spedizione Nazionale Subacquea promossa dal Bruno Vailati che partì da Napoli sulla motonave Formica per poi rientrare in Italia sei mesi dopo. Probabilmente quando Vailati e i suoi compagni di avventura approdarono qui la natura era ancora più forte e intatta. Fra di loro anche Gianni Roghi che, in un libro sulle Dahlak, descrisse con grande maestria momenti irripetibili come il parto delle mante non lontano dalla costa di Dur Ghella. “… nessun uomo vide mai quello che noi vedemmo in quell’ora del tramonto… quaranta o forse più mante, in una giostra ininterrotta e quasi a catena, salivano dal baratro in volo verticale con le ali e le corna tese, aprivano il mare e a braccia spalancate si rovesciavano, calavano ancora a testa in giù e là nel profondo, a venti o a trenta metri, riprendevano quota per tornare in superficie … la danza durava da mezz’ora. Ma perché? Perché quel convegno? A un tratto frullò in superficie qualcosa, una faccenda lunga, come la scia di un mitico serpente marino … erano piccolissime mante in schiera in fila per due, affarini di neppure un metro. Sbattevano freneticamente le alucce e si dirigevano anch’esse in alto mare. Dopo dieci minuti ci passò accanto una nuova schiera di mante bambine, e intanto le madri giravano, giravano, giravano … Cecco, gridai, Cecco, è il parto delle mante! si capovolgono così in tondo per aiutarsi! Guarda come fanno, si stirano sul ventre e spingono girando contro l’acqua, l’attrito dell’acqua le aiuta”.

Non tutti hanno questa fortuna ma non è raro vivere situazioni che lasciano altrettanto meravigliati. C’è infatti chi, in tempi più recenti, a 10-12 metri di profondità su una sorta di terrazza di sabbia, si è ritrovato circondato da branchi di tonni, carangidi, sgombri e barracuda che si sono messi a vorticare freneticamente, come in una danza sufi, formando una sorta di cilindro del diametro di 10 metri. Oppure chi ha provato l’incredibile esperienza di essere seguito da una cernia curiosa che si immobilizzava quando l’oggetto della sua curiosità si fermava per poi riprendere con lui, in assoluto silenzio, il cammino. O, ancora, chi si è ritrovato di fronte a una fila di cammelli che, con calma regale, attraversavano il mare.

Testo e foto di Fabia Garatti

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