Siamo arrivati all’ultimo venerdì di aprile. Il prossimo venerdì cadrà in maggio e sarà (per assurdo) la festa del lavoro! Un inizio d’anno, questo, che lo scorso Natale avremmo ritenuto improponibile, impensabile. Un inizio d’anno durante il quale abbiamo imposto al nostro corpo, alla nostra coscienza, una nuova dimensione: quella della paura, del dolore, della compassione, condizioni mortificanti che abbiamo tuttavia cercato di combattere con pazienza, resilienza (ah…la famosa resilienza!) tenacia, fiducia, speranza. Perché allora proporre oggi la storia semplice e insieme unica di Crepereia e della sua bambola? Che attinenza può avere con la pandemia che stiamo vivendo? La risposta è ambiziosa e insieme stralunata, all’apparenza. Diciotto secoli fa Crepereia, una bambina che tuttavia era già promessa sposa, è morta tredicenne, a Roma, forse per cause naturali o forse per malattia. Grande deve essere stato il dolore dei genitori che tuttavia, nel momento del distacco finale, hanno voluto consolare la solitudine della loro figliola affiancandole nella bara l’oggetto dei suoi giochi e dei suoi sogni di giovane donna: una bambola, per l’eternità. Sarebbe bello se i figli e i nipoti dei molti (troppi) anziani vittime del Covid-19, rimasti desolatamente soli nell’ultimo viaggio, facessero altrettanto per i loro papà, mamme o nonni: mettere loro accanto un oggetto, qualcosa che in vita conservavano gelosamente, per averlo di nuovo con sé. Per sempre.
Questo è stato ciò che la sorte ha riserbato a Crepereia. Morendo, ha avuto accanto a sé il suo gioco da bambina, attraverso il quale esercitava una sorta di apprendistato per affrontare la fase successiva, quella di donna e moglie, dato che secondo la tradizione della Roma del tempo alle donne nubili che morivano, era concesso portare con sé nella tomba gli oggetti personali, quelli più cari. Crepereia è vissuta attorno alla metà del II° secolo dopo Cristo e con tutta probabilità apparteneva a una famiglia benestante, quella dei liberti Tryphaena. Il suo lungo sonno è durato dal momento in cui è stata inumata sino all’anno del ritrovamento, il 1889, nel corso dei lavori di edificazione del Palazzo di Giustizia (ora Corte Suprema di Cassazione) quello che i romani hanno sempre chiamato “Palazzaccio”. Otto metri sotto il piano stradale, in prossimità del Tevere, sono stati trovati due sarcofagi: uno conteneva lo scheletro di Creperius Euhodus, il padre; l’altro quello della figlia. Una visione imprevista, per certi versi inquietante ha colpito sul momento gli archeologi: sotto un velo d’acqua limpida e fresca c’era infatti un teschio che appariva coperto da folta e lunga capigliatura. I bulbi di una pianta acquatica dai filamenti scuri,avevano infatti scelto il cranio di Crepereia per attecchirvi, ondeggiando nell’acqua infiltratasi nella tomba.
Una bambola perfettamente snodabile e bellissima, quella della ragazza romana;a un primo esame si è pensato potesse essere di legno di quercia o mogano; dopo accurate analisi di laboratorio, è emerso che si trattava invece di avorio, indurito e iscurito dalla lunga permanenza in acqua. Con tutta probabilità la bambola avrà avuto all’origine un delizioso incarnato eburneo, ingentilito da capelli riccamente acconciati in una pettinatura che era di moda ai tempi di Marco Aurelio. Ma non era l’unico tesoro della tomba, la bambola. Molti altri oggetti erano stati aggiunti a corredo di questo fantastico balocco di quasi duemila anni fa: un cofanetto per le gioie, due pettinini in avorio, uno specchietto in argento, vari anellini in oro, una bacchetta d’ambra, un fermaglio in oro con ametista incisa, una collana, degli orecchini in oro e perle e infine una corona di foglie di mirto fossilizzate che era trattenuta sul capo da un fermaglio d’argento a piccoli fiori. Le sorprese non finivano qui; la bambola aveva ancora al pollice della mano destra un anellino con una minuscola chiave che, forse, apriva il piccolo scrigno dove erano custoditi gli altri gioielli. Oltre a ciò, la bambola d’avorio mostrava dei fori ai lobi, praticati per gli orecchini con perline. Tra i gioielli di Crepereia Tryphaena è stato ritrovato, al dito della giovanetta, un anello con incisa la parola Filetus. Forse il suo promesso sposo? Questa è stata, per lo meno, la supposizione cui è giunto il poeta Giovanni Pascoli, che ha dedicato un breve poema in lingua latina all’amore mancato dei due giovani romani.
Libertas Dicendi n° 258 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com