Romania. Maramures, gli ultimi custodi



Nella terra Maramures, in Romania, la vita segue ancora un ritmo antichissimo, scandito dalle stagioni e dai riti ispirati dal mistero della natura. Nel sorriso della sua gente, la saggezza di un modo di vivere diverso, un’armonia e un equilibrio che il nostro tempo ha dimenticato.

Puro è l’aggettivo giusto. Un paesaggio puro. Boschi profondi e compatti. Erba grassa e rugiadosa. Morbidi rilievi color smeraldo inondati di luce limpidissima. Non è l’Eden. O forse sì, anche se qui si chiama Romania. Ma anche duro è l’aggettivo giusto. Perché vivere da queste parti non è facile, nè comodo. Un’Arcadia anomala, da sudarsi con fatica. Chi è solo di passaggio, nello splendore della bella stagione, sarà stregato da un idillio bucolico e non immaginerà i denti di ghiaccio dell’inverno, il fango, l’isolamento, e il duro lavoro di chi abita queste terre. La mano dell’uomo qui lascia segni delicati. Sforzi pesanti per modifiche leggere che regalano un’ ulteriore, involontaria bellezza al paesaggio. Gli steccati sono fatti solo di paletti verticali infissi nel terreno e si ripetono all’infinito. Recintano prati minuscoli, giardini piccolissimi, pascoli per una sola mucca.

Il ritmo dei prati è dato dai pagliai che sono note musicali disegnate nei pentagrammi degli steccati. Chi saprà mai leggere questa musica segreta? Il cielo basso, gonfio di nuvole grigie e lanose come tosature di pecore, si è impigliato sulle cime aguzze degli abeti lontani. La strada gli corre incontro, sempre più in alto, di tornante in tornante, portando al di sopra di questo tappeto di lana spessa, fino al sole sfolgorante. Fino alle conifere maestose e segrete. Fino ai prati pelati verde muschio. Fino alla splendente gloria montana della cima del Pasul Prislop. Si entra così nel distretto di Maramures, cuore antico e incontaminato di Romania, dove si vive ancora secondo ritmi, costumi e tradizioni fuori dal tempo. Dagli antichi Daci e dai Traci il passato ha trasmesso la sua voce senza interruzioni e un’antica civiltà rurale dalle profonde radici, forse l’ultima d’Europa, si è conservata, intatta e viva, fino ai nostri giorni. Testardi e indipendenti, isolati nelle loro valli protette dai monti Carpazi, tra la Transilvania e l’Ucraina, i Maramures sono contadini per necessità e artigiani e artisti del legno per passione.

Al legno hanno affidato il loro cuore, la loro anima e i loro simboli di vita e di morte. Il legno conserva lo spirito dell’albero e non muore mai. Lavorarlo, intagliarlo, significa estrarne l’essenza segreta, rivelare e portare alla luce il legame sacro che unisce alla terra e al cielo. Albero come uomo, bosco come collettività, legno scolpito come essere umano evoluto e realizzato, padrone del significato di ogni segno. La valle dell’Iza è dolce e serena, mossa da colline ventose. I prati, zebrati da strisce di steccati, respingono l’onda incalzante dei boschi. Tengono a bada gli abeti come branchi di cavalli selvaggi. Le case sparse nel verde sono templi, piccole barche, nidi di tronco, gusci di noce persi in un mare d’erba spazzolato dal vento. Piccoli mondi di legno cigolanti, profumati, scricchiolanti come cose vive. I tetti spiovono giù ripidi, calati su tutti e quattro i lati e spesso coprono un’ampia veranda a portico, dove si svolge buona parte della vita degli abitanti. Un sorprendente cancello-portale d’ingresso chiude come un fermaglio prezioso il giro di steccato che circonda la casa. Alto e massiccio, tutto in legno intagliato a figure e motivi simbolici, una sorta di passaggio purificatore e un baluardo per tenere lontani gli spiriti della foresta.

Nelle valli, le chiese di legno, sacre a partire dagli alberi con cui sono state costruite, si innalzano in mezzo al verde, al bordo dei villaggi, scure e misteriose come navi arenate. Ricordano vagamente le stavkirker norvegesi e stupiscono con uno slancio verticale così insolito in un mondo di linee orizzontali morbide e ondulate. Tetti ripidi e altissimi su cui le scandole disegnano una specie di pelle di pesce a squame. Campanili come frecce puntate verso il cielo, così aguzzi e affilati da sembrare taglienti. Linee ispirate dal gotico della foresta. Negli intagli, simboli pagani intrecciati a simboli religiosi. All’interno, la ieratica rigidezza ortodossa è addolcita da un velo di ingenuità di campagna. Tutto è di legno, persino le campane vengono usate raramente, preferendo delle semplici percussioni su di un asse.

Le croci dei vecchi cimiteri spuntano tra l’erba alta e lussureggiante. Vi si incurvano sopra i rami dei meli, piantati come fiori giganti in giardini di silenzio. Davanti alle case è facile incontrare donne che battono fasci di canapa, altre sedute con la conocchia e il fuso, intente a filare la lana, altre ancora che appendono il pentolame della cucina a dei grandi rami levigati, piantati nell’aia come asciugatoi. Bambini curiosi spuntano dietro ogni steccato, spiano dalle fessure dei portali, corrono sulla strada, giocosi come cuccioli di volpe fuori dalle tane. Si percepisce il respiro di un’anima contadina arcaica, un’ingenuità sognante e svagata, lo sguardo lucente di un ragazzo di campagna sdraiato su un prato con una margherita in bocca. Sapanta è un villaggio di campagna in terra Maramures. Oche, mucche, cavalli e galline sono di casa fra le sue stradine deserte, su cui transitano rare automobili. La vita qui segue il ritmo del sole e delle stagioni. Il lavoro degli uomini e delle donne è duro come la terra sotto la zappa, e pesante come la neve sui tetti a febbraio, ma è anche dolce come il latte appena munto, e lieve come il profumo dei meli e dei ciliegi a primavera.

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