Tra gli indigeni Harakbut del Rio Madre de Dios che continuano a vivere come hanno fatto per secoli, lottando per proteggere la selva dallo sfruttamento.
Testo e foto di Matteo Fabi

Nell’ottobre del 2019 mi trovavo da più di un mese nella zona di Cusco, antica capitale del glorioso impero Inca, che si estendeva ben oltre i confini dell’odierno Perù. Ero alla ricerca del mio primo libro da leggere interamente in spagnolo. La scelta ricadde su Operacion Paititi di Ruben Iwaki Ordonez, scrittore peruviano che, con attitudine autobiografica, raccontava la sua fascinazione sin dalla più tenera età per la ricerca di Paititi, la leggendaria città Inca traboccante di oro divenuta poi nota come El Dorado. L’autore racconta di come, attingendo alle narrazioni degli indigeni che lavoravano nel latifondo di famiglia, egli tentò a più riprese di individuare il mitico sito archeologico, che giaceva apparentemente non lontano dalla sua zona natia del Pantiacolla, lì dove le Ande incontrano l’Amazzonia, tuffandosi nel bacino del Rio Madre de Dios. Dopo aver divorato il libro in un paio di giorni, saltavo sul bus notturno che in otto ore mi avrebbe portato dai 3500 metri di altitudine di Cusco fino a Puerto Maldonado, crocevia dell’autostrada Panamericana e capitale amministrativa della regione del Madre de Dios.
L’Amazzonia brucia
Volevo addentrarmi nel polmone verde del mondo e visitare comunità indigene remote, per scoprire i veri tesori di una cultura che ha vissuto in simbiosi con la foresta pluviale sin dall’alba dei tempi. In costante ricerca di modelli di vita ecosostenibili e di società non governate dalla logica del capitale, mi sembrava naturale fare tappa nell’Amazzonia Peruviana, dove vivono ancora tribù, nel profondo della foresta, non ancora contattate e quindi non inquinate dal mondo civilizzato. Alcune di esse vivono in isolamento spontaneo; altre sono a conoscenza del caotico mondo al di fuori della selva, ma preferiscono continuare a vivere come han fatto per secoli. Nella realtà quotidiana, le popolazioni indigene dell’Amazzonia incarnano sempre meno la romantica immagine di nativi con corpi magnificamente decorati, che vivono un’esistenza idilliaca a contatto con la Madre Terra. L’Amazzonia brucia per fare spazio a coltivazioni, a causa dell’allevamento o dello sfruttamento minerario. Chi paga il prezzo per lo sfruttamento di queste terre infinitamente ricche sono i popoli che qui hanno le proprie radici, oggi recise senza riguardo. Questa tragedia dei tempi moderni vede protagonisti anche gli Harakbut, nativi della zona del rio Madre de Dios.
L’oro minaccia gli Indios della selva

Gli Harakbut sono solo una delle etnie presenti in quest’ area: Amauacha, Kichwa Runa, Shipibo, Ese Ejas, Matsigenka e Yine condividono lo stesso territorio al confine tra Peru, Bolivia e Brasile. Sin dal 1982, queste tribù si sono riunite sotto l’effige dell’Associazione Fenamad (www.fenamad.com.pe), letteralmente “Federazione delle popolazioni native del rio Madre de Dios e affluenti”. La necessità di unire le forze nacque proprio sotto le infauste circostanze di un boom dell’industria aurifera illegale a partire dagli anni ‘80. La zona del Madre de Dios è infatti ricca d’oro. La regolamentazione dell’industria mineraria è scarsa e la sua applicazione ancor più povera. La corruzione è rampante a ogni livello: licenze per attività mineraria artigianale vengono sfruttate impiegando mezzi pesanti, con intenso disboscamento. Per gli uomini delle comunità locali, spesso l’attività mineraria rappresenta l’unica opzione, nonostante la paga sia scarsa e le condizioni lavorative pessime, con turni di lavoro da 24 ore ininterrotte.
Una speranza per il futuro: l’ecoturismo

Le comunità native, però, sognano un futuro migliore, in cui lo sviluppo economico contempli la tutela della terra dei loro avi. Un fulgido esempio è quello offerto da Anoshka Violeta Irey Cameno, tesoriera dell’Associazione e rappresentante del popolo Harakbut. Questa caparbia donna ha aperto le porte della sua comunità di Masenawa, ubicata sulle rive del Madre de Dios, a diverse ore di barca dalla civiltà. Insieme a lei incontro i suoi fratelli e sorelle, oltre ai suoi centenari genitori Josè e Lucretia, che vivono qui dai tempi precedenti al contatto con gli occidentali, avvenuto intorno al 1940. Il villaggio è composto da cinque abitazioni in legno immerse nella foresta. A poche centinaia di metri, la famiglia Irey sta costruendo nuovi alloggi per una impresa di ecoturismo su piccola scala, volta a condividere con i visitatori la Reserva Amarakaeri, con cui Fenamad ha ottenuto la tutela del territorio appartenuto ai loro antenati da più di tremila anni. Lezioni di lavorazione artigianale del legno vengono anche offerte ai membri della comunità, proponendo così un’ulteriore fonte di guadagno sostenibile. Il cibo necessario al sostentamento viene procacciato con il fucile o le reti da pesca. Le giornate trascorrono placide lavorando la terra e con interventi di manutenzione ove necessario. La foresta offre agli Harakbut tutto ciò di cui hanno bisogno. Sebbene osteggiate dalle compagnie aurifere, e solo limitatamente supportati dagli enti governativi, Anoshka e le comunità del Madre de Dios mostrano l’orgoglio che è proprio agli indigeni dell’Amazzonia. Persone che vivono nel mondo contemporaneo, ma non hanno dimenticato l’importanza delle proprie radici, saldamente piantate in un ecosistema pulsante di vita che essi considerano più prezioso degli stessi tesori che questo nasconde.
Testo e foto di Matteo Fabi |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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