Il mondo come era, prima che lo abitasse l’uomo. I sedimenti di milioni di anni, gli sconvolgimenti dei vulcani, gli assestamenti, i geyser: per scoprirli basta venire in questa isola. Perchè l’Islanda è la terra più giovane d’Europa, ancora tutta da fare.

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L’icona del macho islandese, dell’uomo capace di cavarsela dentro un territorio ostile come questo, si materializza in un pomeriggio di primavera, in un punto imprecisato di questo deserto colorato che è l’Islanda, mentre si aspetta invano da ore che un soccorso stradale venga a tirarci fuori dai guai. Piccolo, segaligno, si cala da un gigantesco fuoristrada di quelli che da noi si usano per andare a prendere i bambini a scuola ma mostruosamente modificato

perchè qui sia in grado di affrontare il ghiaccio d’inverno e il fango d’estate. Ruote praticamente da camion, parafanghi adeguatamente allargati, bull bar enorme davanti al muso, batteria di fari supplementari, verricello per dare una mano a turisti inesperti. Come noi. Dentro l’abitacolo sistemi di navigazione, un computer grande come quello di casa e l’indispensabile telefono satellitare, perchè capita che i telefonini consueti non funzionino in gran parte del territorio. Tutte cose utili, certo, ma ho il sospetto che ci sia un po’ di esibizionismo. Insomma invece di una Ferrari… Parla poco, come tutti gli islandesi incontrati nel viaggio, si limita a indicare con il braccio la strada di terra battuta bianca e solida, e poi il prato dove il nostro fuoristrada da noleggio è affondato: “here’s the road, not there”, e scuote lievemente la testa. Ma appena appena. “Turisti!” deve pensare. Poi da un baule portatutto sul tetto del fuoristrada estrae una gomena da petroliera lunga una cinquantina di metri in trenta secondi riesce a fare quel che due o tre automobilisti passati di lì in quattro ore non erano riusciti a fare. Si chiama “permafrost” la trappola in cui siamo finiti. Il terreno, in posti come l’Islanda a due passi dal Circolo polare artico, è permanentemente ghiacciato appena sotto la superficie. E’ solido finché fa freddo, nella stagione calda si sghiaccia. In superficie non cambia aspetto ma appena sotto è una poltiglia di fango. Così una banale escursione di un metro fuori dalla strada battuta, deviazione effettuata per evitare un invadente enorme camion che stava in mezzo alla carreggiata, si era trasformata in un problema insormontabile con il nostro gippone normale affondato piano piano, incredibilmente, fino alla carrozzeria. Così il primo incontro con la selvaggia Islanda e con i “selvaggi” islandesi, aveva avuto il colore dell’avventura. Se non del dramma.

Si era partiti da Reykyavik un paio di giorni prima senza conoscere la prima regola fondamentale che dice di non uscire mai in nessun caso dalle strade. Non te lo dicono neppure al banco del noleggio quando prendi in consegna le chiavi del gippone e già pensi di scatenarti in fantastici off road. Lo trovi scritto dopo, dentro l’abitacolo, una targhetta piccola che quasi non vedi. L’Islanda off road è proibita. E anche quella degli oltre 90 all’ora. Seconda regola ferrea ricordata ogni minuto da cartelli stradali ossessivi. E’ la velocità massima possibile in tutta l’isola, si va piano anche sui rettilinei che vagano nel vuoto e di cui non vedi la fine. Nessuno avrà mai una Ferrari da questa parti. Così quando lasci Reykyavik, dove sempre si arriva e da dove sempre si parte per il classico giro dell’isola, devi tener conto che le medie saranno da lumaca.

Si era partiti dalla capitale dopo averne assaporato i fasti notturni, teneri e provinciali, fatti di una main street affollata su cui esibirsi in strusci motorizzati, tra vetrine di ristoranti e locali notturni. In coda, a passo d’uomo, stile cittadina della provincia americana. L’unica strada trafficata dell’isola grande come tutto il Norditalia ma con appena 240 mila abitanti in tutto (quelli di un sobborgo di Roma, di un quartiere di Città del Messico) la metà dei quali affollati nella capitale e negli immediati dintorni. Così appena fuori è il vuoto assoluto e la speranza di far quattro chiacchiere con i locali è praticamente nulla. Nordici e isolani, gente che ama poco la conversazione. Li vedi, gli islandesi, da lontano, mentre passi a 90 all’ora, piccole figure umane affannate intorno a fattorie isolate mezzo chilometro oltre la strada, perse dentro questi paesaggi che sembrano virtuali musei geologici, tanto sono perfetti, come tavole esplicative di un manuale.

Se si vuol capire come si è formato il mondo pre-umano, con i suoi sedimenti di milioni di anni, gli sconvolgimenti dei vulcani, gli assestamenti, basta venire da queste parti. Perchè l’Islanda è la terra più giovane d’Europa, ancora tutta da fare. E gli sconvolgimenti non sono ancora terminati. I vulcani sono 200, una cinquantina erano attivi un migliaio di anni fa quando si fecero vedere i primi colonizzatori dell’isola arrivati dalla Norvegia. Buttano lava da sempre, tanto da coprire il 12% di tutto il territorio. Così oltre il finestrino ti scivola accanto un paesaggio che alterna verdi campi irlandesi (con la “r”) con dentro margherite e cavalli, e brulle spianate infernali grandi come un po’ di pianura Padana. Dolci colline e contorte montagne laviche, nere come tizzoni. Gli umani, alla fine, sono un elemento secondario, persino una presenza inutile nella perfezione spettacolare dei paesaggi silenziosi. Rotti solo dal rumore delle cascate che cadono dall’alto verso il basso e quelle che vulcani nascosti sparano verso l’alto. E spesso dal sibilare del vento del Nord che qui arriva impietoso e gelido.

Prendi la Statale n°1, la Ring Road, perchè è l’unica strada da prendere, e l’unica cosa da fare. Fai il giro dell’isola sfiorando il mare, allontanandoti un po’, a 90 all’ora, con davanti nessuno e dietro nessuno, scivolando di luogo codificato in luogo codificato, per incontrare il popolo che davvero abita l’Islanda, cioè i turisti. I luoghi codificati sono cascate, solfatare, vecchi vulcani spenti sorgenti di acqua calda e fango bollente, fumarole e, si diceva, geyser. Si va di “attrazione turistica” in attrazione turistica, senza scampo, tutti insieme. Si arriva, si parcheggia, si visita tutti insieme, Ogni geyser, cascata, ha la sua piccola o grande folla di italiani, tedeschi, americani, giapponesi. Islandesi, pochi. Trovi sempre le indicazioni, trovi sempre parcheggio, tutto è lindo e silenzioso, i luoghi curati, e anche i turisti si adeguano. Silenziosi e rispettosi.

Sarà la natura che ti mette soggezione. Montagne, deserti di e sabbia, i fiordi sul mare, i ghiacciai a sud, gli altopiani disabitati dell’interno, elevati fino a 1000 metri dove non cresce nulla, le isole di contorno e il bassopiano verde. Una natura maestosa da osservare in silenzio. Niente a che vedere, che so, con un parco americano, metti Yellowstone, che è un po’ simile all’Islanda, dove il touristic show non è meno di quello della natura. Grandi alberghi-lodge spettacolari, spettacolari rangers, spettacolari negozi di souvenirs. Qui, invece, è tutto più intimo, misurato. Dormi in piccoli alberghi, piccoli agriturismi dove si cena rigorosamente alle 7,30 di sera e si sparecchia la tavola alle 8, e dalle 8 in poi non hai più niente da fare se non meditare su quello che hai visto e che certamente ti ha avvicinato al senso estremo delle cose, aspettando il buio che nei mesi estivi non arriva mai. La vita notturna islandese è concentrata nel chilometro dello struscio sulla main street di Reykyavik, qui si viene per stare soli con il mondo ancestrale.

Il nostro è un raid di una settimana. Bastano per fare una corsa sull’isola e vedere tutto. Cominciando dal Þingvellir national park, che è il primo impatto con le tavole geologiche esplicative islandesi. Ci sono cascate spettacolari Hraunfossar e Barnafoss, e Deildartunguhver, la più importante sorgente d’acqua calda d’Europa. La Ring Road sfiora la costa sud, passa la penisola di Snæfellsnes per arrivare a Arnarstapi, tanto per vedere le formazioni di basalto. E’ da queste parti lo spettacolare ghiacciaio Snæfellsjökull.
Segui le spiagge verso nord e sfiori minuscoli villaggi di pescatori che ti fanno capire che, in fondo, l’Islanda è un paese abitato. Anche se sembra ci siano più cavalli che anime, stando alle sensazioni. Cavalli bellissimi, eleganti, quasi efebici, sparsi a branchi dentro corrals improvvisati che compaiono qua e là nella campagna. Qualche volta portano persino qualcuno in sella. Li vedi soprattuto nella regione Skagafjörður. Da queste parti si può visitare la vecchia tipica fattoria, “magnifico esempio di architettura islandese” come recitano le guide, di Glaumbær che sarebbe come da noi visitare il Colosseo. Si arriva ad Akureyri, capitale del Nord, dicono qui, e se si va verso Laugar c’è un’altra cascata, Goðafoss.

Poi viene la penisola di Tjörnes e un altro parco, il Jökulsárgljúfur National Park che ha di spettacolare formazioni rocciose che si chiamano Echo rocks e strani canyon. Seguite le indicazioni e il gruppo di turisti. Alle Dettifoss, le più grandi cascate d’Europa in fatto di portata, si arriva in automatico e anche alla foresta di Hallormsstaður la più grande dell’isola lungo il lago Lagarfljót che, come quello di Loch Ness è abitato da un mostro. La Ring Road qui diventa una strada di montagna e diventa la Breiðdalsheiði mountain road che porta a Breiðalsvík. Poi via verso il lago Mývatn, il vulcano Krafla e infine il porto di pescatori di Húsavík.

La laguna di Jökulsárlón cosparsa di piccoli iceberg sembra una piccola Antartide da Luna park. Un battello anfibio carica il solito gruppone di forestieri per un giro alla Titanic. Se avete scarpe robuste e attrezzatura adatta siamo nel Skaftafell National Park, sotto il ghiacciaio Vatnajökull, con la possibilità di fare escursioni, stavolta off road autorizzato su chilometri di sentieri.
Se si va avanti tutto diventa nero come l’inferno. Prima si attraversa Eldhraun un enorme campo di lava e poi Mýrdalssandur un deserto di sabbia nera per arrivare a Vik, la più importante città del sud. Ma quando si dice città immaginate un villaggio grande come un quartiere. Qui c’è da subire l’ennesima cascata, Skógafoss e il più famoso dei geyser islandesi, cioè il Great Geyser. E sappiate che tutti i getti di acqua calda del mondo prendono il nome da questa parola islandese. Passi il villaggio di Hveragerði e sei di nuovo nei fasti urbani di Reykyavik. Con tanto di Pizza Hut e persino passanti per strada.
Testo di Lucio Valetti Foto di Sergio Pitamitz
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