Sho Do, l’arte calligrafica giapponese

SHO DO

Diversi anni fa, ho avuto modo di avvicinare questa disciplina orientale, caratterizzata dai due monosillabi Do (via) e Sho (scrittura). L’occasione mi era stata offerta da una intervista fatta a un Maestro giapponese, Takuma Iijima, che nell’ambito di una mostra intitolata ‘L’Arte della Calligrafia nel Giappone contemporaneo’, si era esibito in saggi grafici suscitando, oltre al personale interesse, anche quello di numerosi visitatori. Come prima cosa, Mr Takuma mi aveva dato qualche notizia di base su quest’arte, vecchia di decine di secoli. I Giapponesi, aveva detto, fra le molte arti che coltivano, annettono grande importanza a quella calligrafica che esalta, se così si può dire, una scrittura per ideogrammi fra le più complesse della terra. Nella vita di tutti i giorni, accanto a forme d’arte quali l’Origami (come creare oggetti piegando la carta), l’Ikebana (la bravura e l’inventiva nel disporre i fiori), il Bonsai (coltivazione di piante in miniatura) – notissime anche in Occidente – i figli del Sol Levante amano e quasi prediligono lo Sho, cioè l’arte della calligrafia. Lo Sho Do si articola in tre stili base: il Kaisho, eseguito con caratteri base, ovvero linee diritte e forme tradizionali; lo Gyosho (leggere abbreviazioni e linee moderatamente curve) e lo Sosho (maggiori abbreviazioni, molte varianti e prevalenza di linee curve). Questi vari stili di scrittura sono stati usati ininterrottamente in Cina per quattromila anni. Il Kanji – è il nome della disciplina originaria – dalla Cina si è poi spostato in Giappone all’incirca 1500 anni fa.

Pochi e semplici sono gli strumenti necessari per esercitare quest’arte calligrafica. Anzitutto occorrono dei Fude (pennelli) in setola naturale e di varie misure. Poi c’è il Sumi (bastoncino solido di inchiostro) che si mette sullo Suzuri (pietra da inchiostro) sulla quale verrà stemperato e diluito con acqua sino a ottenere l’intensità di colore voluta. Infine, presente in diversi tipi – da quella preziosa fatta a mano a quella di produzione industriale – ecco il Kami (la carta). A questo punto, ricordava il sorridente Maestro Takuma, ci si può abbandonare alla fantasia di ‘segni’ che esprimono un concetto astratto, una breve poesia, oggetti o animali. In questo i giapponesi sono bravissimi, al punto da esercitare l’arte dello Sho Do in tutte le varianti interpretative che i sentimenti del momento suggeriscono e che l’arte applicata dello Sho consente. Ma cos’è, in definitiva, lo Sho? Donald Keene, noto studioso di letteratura giapponese, l’ha così descritto:‘la calligrafia può essere considerata un tipo di pittura astratta. Le persone che sono attratte dal ritmo delle linee, dalle sfumature del ‘Sumi’ e dalla composizione globale dell’opera calligrafica, sono già appagate da questi elementi. Non ha importanza se non comprendono il significato dei caratteri o non conoscono il nome del calligrafo’.

 Alle considerazioni di Keene si può aggiungere la realtà di una storia millenaria. Gli asiatici – in particolare i popoli della Cina e del Giappone – hanno elaborato e trasformato questi simboli calligrafici elevandoli ad ‘arte della linea e dei sentimenti’. Nello Sho il carattere, la personalità di chi scrive, si esprime sino al punto in cui si può affermare che ‘lo Sho è l’Uomo’. Infatti gli asiatici hanno attribuito nel tempo un altissimo valore all’atto stesso dello scrivere i caratteri con facilità, senza cercare di esprimere alcunché. In generale il mondo dello Sho è un mondo in bianco e nero. Se si mettono insieme tutti i colori dell’universo essi diventano un colore chiamato ‘nero’; e il bianco è il suo esatto contrario. Una curiosità, per concludere. Ricordo che nella mostra milanese, assieme ai lavori esposti dai Maestri giapponesi, figurava nel ricco catalogo anche un’opera di Bruno Munari intitolata ‘Scrittura illeggibile’. La scritta, alla base dello Sho composto dal poliedrico artista e designer milanese, diceva: ‘…anche se si guarda questa scrittura riflessa in uno specchio, non si legge niente’. La convinzione finale di Munari, relativamente all’arte dello Sho Do, rimaneva ad ogni modo quella di essere certo che l’esercizio calligrafico potesse sviluppare una ‘perfezione dei sentimenti’ sino a raggiungere una vera cultura spirituale.

del ‘Columnist’ Federico Formignani | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com