
Questa è una rubrica dai contenuti variabili, me ne rendo conto. Gli editori di Latitudes sono amici di manica larga, con me. Oggi come oggi, sono poche le riviste e i giornali (cartacei o sul web) che ti lasciano scrivere quello che vuoi; io godo di questo privilegio. Forse perché sono un fuori quota (per l’età); magari perché interessa quello che scrivo (temi eterogenei, appunto) oppure perché piace come scrivo. Sta di fatto che ogni tanto mi regalo qualche licenza poetica e presento il lavoro di colleghi più giovani. Questa settimana è la volta di Elisabetta Pina che è sì giornalista, ma più che alle parole affida i propri pensieri e messaggi alle fotografie; quindi Elisabetta è anche (e soprattutto) una fotografa; atipica, a mio parere; le immagini che scatta sono figlie delle sensazioni, degli stati emotivi che prova. In concreto, il lato più interessante della faccenda (potrebbe essere tema per un’indagine sociologica) consiste nel soggetto che quasi sempre propone attraverso i media e per mezzo delle mostre che allestisce: Milano città, le case, gli angoli rutilanti di luci e quelli dimenticati o angosciosamente reietti (possibile giaciglio notturno di barboni), alternati con le visioni di metropoli del futuro, di grande polo urbano nel quale convivono splendidamente – non dimentichiamo che Milano è “anche” città vivibile – il bello con il brutto, l’antico col moderno, il funzionale con l’irrazionale, il colore con le zone grigie, la percezione di povertà con quella di lusso esagerato. Ogni foto di Elisabetta ha indubbiamente molteplici possibilità di lettura, tra di esse in contrasto, ma solo chi è nato qui può capire, accettare e apprezzare. Lei, l’artista, donna giovane e attivamente frizzante, vede così la sua città: “sensibile, pop, rock, underground, vitale e anche mistica”. Quante cose e tutte insieme! Ma come darle torto, dopotutto.
L’iter professionale e umano di Elisabetta sembra si sia srotolato nel tempo in maniera piana e “mirata”; né poteva essere differente, il cammino. Figlia di giornalisti, è cresciuta nella radicata convinzione di esercitare il mestiere più bello del mondo che riserba (a chi lo ama) esperienze indelebili insieme a qualche inevitabile intoppo; poco male, c’è sempre stata e oggi più che mai c’è la macchina fotografica, lo smartphone. I corsi formativi della Riccardo Bauer hanno contribuito a indirizzare nel modo migliore gli impulsi della creatività. Libertà d’immagine e di colore, il suo credo; e anche parole in scioltezza. Per esempio, quando le ho chiesto perché mai le era venuto in mente di lanciare urbi et orbi come il papa il suo hashtag #milanononfaschifo, la risposta è arrivata decisa, tenera e disarmante: “Ammetto che quel non-fa-schifo è stato oggetto di critiche, ma le immagini lo giustificano ampiamente; si può vedere il bello o il brutto della città, così come si può percepire positivamente o in negativo i messaggi che questa lancia di continuo. Io ho il vizio di pensare per immagini anche quando uso le parole. Non è un vanto, ma una forma mentale”. E allora, dopo le parole, via alla cascata di immagini che hanno aggredito i social del momento: facebook, instagram, giornali blog, radio, eccetera; con un po’ di cartaceo, via!
Un capitolo bello e ripetitivo di Elisabetta è quello delle mostre, delle esposizioni di sue foto. In locali piccoli e raccolti (bar, luoghi di incontri culturali) adatti per accogliere amici e colleghi, condividendo con loro la gioia di una ricerca ben fatta. Così è stato nel 2013 quando ha presentato un “soggetto” importante (l’Arco della Pace) fotografato tutti i giorni dell’anno con la stessa inquadratura e alla stessa ora del mattino (le dieci); nei giorni di pioggia, di vento, di sole, con la gente che passa, ragazzi che corrono. Così ancora la mostra recente (Somewhere in Milano); non solo la città fotografata “da qualche parte”, ma in ogni dove e nelle situazioni più imprevedibili: l’interno tutto blu di una chiesa; Montanelli che batte sui tasti della sua Lettera 22 nei giardini di Via Palestro; Milano verticale nei riflessi di una pozzanghera; il cielo bigio sopra uno scalo ferroviario; un chiosco semicircolare in piazza Lega Lombarda, con lattine di bevande analcoliche di là dei vetri. Tutte immagini senza didascalia, così ognuno può etichettarle a seconda di ciò che la fantasia suggerisce. Cosa farà Elisabetta in un prossimo futuro? Naturalmente quello che già fa ora, con una piccola variante: “voglio realizzare una mostra con una collega di Napoli che ha già sviluppato un progetto molto simile al mio, naturalmente nella sua città”. Lo dice con un sorrisetto di sfida il cui seguito (solo pensato) a Milano suonerebbe più o meno così: “ciàpa-sü”.
del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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