L’Abbazia di Morimondo

Abbazia di Morimondo, Parco Agricolo Sud MIlano, ©Lucio Rossi

A pochi chilometri da Milano, superata l’opulenta e industre cittadina che risponde al nome sempre un po’ buffo di Abbiategrasso, ci si trova in piena ‘bassa’. Campagne verdi, ruscelletti dalle acque abbondanti non più trasparenti come un tempo, casali, piccoli paesi e campi coltivati a perdita d’occhio. Dove il panorama varia alquanto è verso il Ticino, Qui, il naturale dislivello creato nel corso dei secoli dall’alveo del fiume, si presenta in tutta la sua evidenza, dando un sia pur modesto ‘tono’ all’uniformità del paesaggio. Tre o quattro salti di pochi metri, ondulazioni, gobbe del terreno e una gran quantità di pioppi d’alto fusto a mutare la fisionomia della zona, pur sempre irrimediabilmente ‘pianura’. Sul più alto di questi costoni, di fronte a quella conca un tempo sede di putride paludi, sorge l’Abbazia di Morimondo affacciata verso il fiume e circondata dalle casette dell’antico borgo che è nato e prosperato sempre in funzione della vita dell’Abbazia e dei suoi primitivi abitanti: i Monaci Cistercensi. Dà una sensazione di felice tranquillità uscire dalla penombra marcata della chiesa e fermarsi sulla sommità della breve scalinata, in faccia al sole del tardo pomeriggio. Socchiudendo gli occhi, la luce arriva a sprazzi creando riflessi fantastici, filtrata dalla miriade di foglie che appena si muovono per la brezza leggera.

D’altra parte è il fascino dell’Abbazia che tutto avvolge. Sono stati dodici i monaci, guidati da un Abate, che per primi hanno messo piede, nel lontano 10 ottobre del 1134, in quest’angolo di terra lombarda. Erano monaci francesi  provenienti da un’altra Abbazia Cistercense situata nell’altopiano di Langres, nella zona del fiume Mosa. È stato per loro naturale chiamare il luogo prescelto Moiremont, cioè ‘monte’ (dove sarebbe sorta la chiesa) prospiciente la mora, termine  del tardo latino, che significa ‘palude’; monte sulla palude, quindi; in seguito Morimondo. L’abbazia, attraverso i secoli, ha conosciuto splendori e decadenze a seconda dei periodi storici che ha attraversato. I monaci, va detto, hanno sempre tentato di limitare i danni provocati dalle frequenti guerre e dalle scorrerie delle opposte fazioni, adattandosi di volta in volta agli umori dei padroni e signorotti di turno; tutto questo per il bene esclusivo della loro chiesa e per la tranquillità fisica e spirituale delle genti contadine da essi amministrate. Ricorda una monografia ufficiale curata dai Padri Oblati di Maria Vergine che nel 1952, su incarico del Cardinal Schuster, Arcivescovo di Milano, si sono presi cura del complesso monastico di Morimondo, che già nell’anno 1237, a cent’anni dalla fondazione, la chiesa contava 50 monaci e 200 conversi, tutti guidati da un Abate, coadiuvato da un Priore e da un Cellerario (economo). Nei secoli che seguono il numero dei conversi supererà di gran lunga quello dei monaci. I primi erano contadini e persone del luogo che risolvevano i duri problemi del vivere quotidiano prestando la loro opera al Convento, ricevendone in cambio sicurezza e protezione.

La chiesa di Morimondo, edificata tra il 1182 e il 1296, rappresenta uno dei più perfetti esempi di architettura cistercense in Italia. Tra i più noti artisti ‘costruttori’, vanno ricordati i Maestri Comacini della Valle d’Intelvi (Antelami). Lo stile  della chiesa è il ‘gotico borgognone francese’, corredato da elementi locali ‘romanico lombardi’, specie nelle parti ornamentali. La sobria eleganza del complesso rispecchia, pur nella grandiosità dell’insieme, la regola prima di povertà tipica dei monaci, che hanno voluto riserbare tutto il possibile ‘lusso’ – in primo luogo – alla creazione e all’abbellimento della loro chiesa. Contiene, Morimondo, molte opere d’arte e alcune di notevole valore. L’Abbazia è il primo e più grande capolavoro. Poi le vetrate del Quattrocento che ornano il finestrone rotondo del transetto sinistro. Quindi l’acquasantiera circolare in pietra di Saltrio, dotata di sculture fantastiche e insieme ingenue, retaggio dell’arte un po’ rozza del quattordicesimo secolo. Ancora: l’altare maggiore in marmo nero, scolpito in stile barocco nel 1704 e il famoso coro in noce, ultimato nel 1522, opera del maestro Francesco Giramo. Infine, ma c’è molto altro da vedere  (l’antico refettorio e la loggia), un dipinto di Bernardino Luini raffigurante la Vergine col Bambino. L’Abbazia sorge in luogo tranquillo e favorevole alle riflessioni, ai silenzi. Dopo la ‘magia’ della visita, ci si può abbandonare ai piaceri della tavola. Specialità delle molte trattorie della zona: le rane fritte, vivaci abitanti delle vicine marcite.

del ‘Columnist’ Federico Formignani | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com

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