Mille e dintorni: frammenti di poesia padana

poesia padanaSiamo decisamente entrati in una fase storica nella quale la lingua italiana è divenuta: povera e audace, televisione dipendente, schiava della pubblicità e sorellastra dei forestierismi. Abbiamo avuto, questo è vero, dei premi Nobel (letteratura e poesia); chissà in quale percentuale i giovani di oggi ne ricordano i nomi: (1906 Giosuè Carducci, 1926 Grazia Deledda, 1934 Luigi Pirandello, 1959 Salvatore Quasimodo, 1975 Eugenio Montale, per finire con Dario Fo, 1997). I poeti moderni si chiamano David Bowie, Prince ecc.; persino Bob Dylan e Joan Baez hanno fatto il loro tempo.

I poeti cari alle giovani generazioni hanno altri nomi, quasi sempre associati alla musica; e questo è bello. Impiegano, per le loro canzoni, una lingua dalle impensabili capacità espressive che avvince e talvolta commuove e non sono pochi i moderni poeti: Leo Ferré, Franco Battiato, Giorgio Gaber, Fabrizio De André, Paolo Conte, Lucio Battisti, Pierangelo Bertoli, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Roberto Vecchioni e il napoletano Pino Daniele. Non è blasfemo accomunare le due ‘categorie’ – arricchite da una vastissima produzione poetica nazionale ‘seria’ – perché la poesia, nella percezione umana, viene recepita e assimilata in diversissime forme e differenti contesti. Facciamo allora un salto indietro di poco più di mille anni.

Il latino classico sopravvive come lingua scritta nei documenti ufficiali, mentre quello parlato naviga verso un volgare che muta col mutar di zona. Nella pianura padana già prendono forma alcune differenze che si accentueranno sempre più, dando vita alla selva dei dialetti. Chi non ci dice che possa essere esistito, fra i probabili e innumerevoli esercizi di scrittura e poesia, qualche autore di notevole bravura, degno di generale considerazione? E come escludere abbia raggiunto notorietà proprio utilizzando le parole ‘nuove’ del volgare, intrise tuttavia di logiche ‘tracce’ latine, per di più influenzate dalle nascenti espressioni vernacolari? Qualche esempio ci può aiutare a comprendere gli autori del basso-alto medioevo.

L’Indovinello veronese è forse l’atto di nascita del volgare, anche se la persistenza del latino è abbastanza evidente. Da un codice redatto in Spagna all’inizio dell’VIII secolo, la composizione, che parla del lavoro nei campi, giunge a Verona e da qui si diffonde: ‘se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba’ (teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava). Ma è dopo il Mille che i vari testi prendono forma e sostanza. Fra il 1167 e il 1177 Uguccione da Lodi, ritenuto il più antico poeta lombardo, scrive:‘ancoi è l’om alegro, doman è traversadho de questo mond a l’altro, sì com’è destinadho’ (oggi l’uomo è allegro, domani è trapassato da questo mondo all’altro, come è destinato). Verso la fine del XII secolo troviamo i caratteri distintivi delle parlate padane occidentali nei Sermoni Subalpini: ‘car Dominidé, non est mia endeignos de recevre zo que hom po far’ (caro Signore, non è mica indegno accettare ciò che l’uomo può fare); abbiamo la caduta delle vocali finali (hom. far) e la totale lenizione (mia) delle consonanti intervocaliche. È la volta di Girardo Patecchio (Girard Pateg) da Cremona, attivo all’inizio del 1200: ‘la femena fa ì’om envrïar como ‘l vino, fal desperad e nesio e fal tornar plui fino’ (la femmina fa ubriacare l’uomo come il vino, lo rende disperato e stolto e lo fa tornar più fino) dove ‘fino’ va interpretato come ‘raffinato’. Anche un anonimo veronese si cimenta su un tema analogo: ‘la femena è contraria d’ogno castigamento, pessima e orgoiosa e de forte talento’ (la femmina è contraria ad ogni costrizione; è pessima, orgogliosa e di forte talento).

Pietro da Barsegapè, fanton (soldato) coevo del Bonvesin, dà persino ‘voce’ al serpente tentatore: ‘perqué no mangi, madona Eva, del fruito bon del paradiso?È molto bello, zo m’è ‘viso’ (perché non mangi, madonna Eva, il buon frutto del paradiso? È molto bello, questo è il mio parere); parere accolto, come ben sappiamo. Infine ecco il famoso Bonvesin de la Riva, che elargisce consigli, perentori e un po’ pedanti, a dire il vero, su come comportarsi a tavola: ‘sta’ conzamente (composto) al desco, cortese, adorno (in ordine) alegro e confortoso e fresco (di buon umore e vivace); no dì (devi) sta’ cuintoroso (pensieroso) ni gram ni travacao (scontroso e sdraiato all’indietro) ni co l’ gambe incrosae (accavallate) ni tort ni apodiao (seduto di traverso o appoggiato alla tavola). Così facendo, il convivio avrà sereno svolgimento. Non è difficile leggere, nel primo italiano di Bonvesin, autentici lombardismi quali gram, travacao, incrosae. Ma capivano tutti, perché questa era la lingua in formazione.

del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com

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