Ma tutti gli altri, si; anche per colpa (magari) del coronavirus. Nel VI Canto del Purgatorio, Dante Alighieri si trova circondato da una folla di anime trapassate per morte violenta e capta l’attenzione del lettore con queste parole: quando si parte (cioè finisce) il gioco della zara (dei dadi); chi vince è quasi travolto da una folla festante, mentre chi perde si ritrova solo a riflettere sull’andamento sfortunato della partita. All’epoca del poeta fiorentino, il gioco dei dadi (o della zara) era il più diffuso in Italia e sicuramente a Firenze, al punto che si giocava addirittura dentro la chiesa di San Giovanni o nel chiostro di Santa Maria Novella! Il dado e i giochi dei dadi avevano nel medioevo molti nomi. La parola più comune era taxilli (tasselli) ma in numerose località italiane persisteva il termine latino classico (alea); nel Trecento viene in prevalenza usata la parola dadi (e talvolta dati). Con il diffondersi del gioco, arrivano anche le proibizioni, come quella dello Statuto di Perugia del 1342 che vieta di giocare ad alcun giuoco de dade. Moltissimi sono i casi in cui il gioco di dadi è chiamato anche “azzardo”, con infinite varianti (azarum, azara, azallum). Il vocabolo azar, di origine araba, era anche il gioco preferito da Alfonso X, re di Castiglia detto “il Saggio”, anche se aveva il vizio del gioco. Tornando alla parola latina (alea), resa celebre dalla famosa frase di Cesare in forse se superare o meno il fiume Rubicone, si può aggiungere che, sempre nel medioevo, conservava il significato di “gioco dei dadi o delle tavole”, per poi identificare in seguito il “gioco di fortuna” e successivamente il significato di incognita, rischio, caso, perfettamente tratteggiati dall’aggettivo aleatorio. Insomma, sempre un azzardo.
Azzardo che diveniva pericoloso se qualcuno truccava i dadi: peccato grave secondo la Chiesa, reato punibile secondo i poteri civili; d’altra parte, ricorda il Vangelo di Giovanni, i soldati romani ai piedi della croce si giocavano ai dadi i panni di Cristo. La furbizia dell’uomo, unità alla mancanza di scrupoli e alla sete di denaro, ha sempre escogitato molti modi per truccare i dadi da gioco. Fabbricandoli, possono essere aggiunti dei pesi (vengono anche impiegate gocce di mercurio allo scopo); oppure si possono arrotondare i bordi o renderli acuti, in modo che le diverse facce numerate finiscano per non essere allineate come dovrebbero; per conseguenti leggi fisiche, è chiaro che usciranno certi numeri (o valori) rispetto ad altri. Alcuni dadi vengono truccati inserendo all’interno sostanze sensibili a fonti di calore anche minime: ad esempio le mani che tengono i dadi prima del lancio, oppure il fiato del giocatore-baro che invoca la fortuna e intanto “scalda” la cera contenuta all’interno del dado! La frode diviene pesante quando vengono fatti dadi che hanno all’interno, al posto della cera o del mercurio, un magnete, che fatalmente si collega a un cavo elettrico incorporato nel tavolo da gioco: senza corrente, il dado scorre libero; a corrente inserita “uscirà” il numero prossimo alle pareti che contengono il magnete. Va comunque detto che oggi vengono impiegati nei Casinò che vanno per la maggiore – non quindi bische clandestine – dei dadi trasparenti in materiale acrilico, difficili da truccare.
Theodoros Metochite, scrittore e mecenate vissuto a cavallo tra il 1200 e il secolo seguente – apprezzato consigliere personale dell’imperatore bizantino Andronico II Paleologo – ha scritto: “ogni cosa può accadere all’uomo e come nel gioco dei dadi, la realtà ora va in un verso ora in un altro”. Il lancio dei dadi è sempre stato interpretato nel tempo come una sfida alla fortuna, un rituale propiziatorio che ciascun giocatore associava a stati di speranza, paura, gioia e sconforto, resi palesi da espressioni ripetute e scaramantiche di gestualità. Tutti, chi più chi meno, giocavano ai dadi; specie coloro che conducevano una vita avventurosa e non di rado grama. Tra questi, i vagantes, talvolta chierici che giravano l’Europa sulle tracce dei santi predicatori, più spesso dei vagabondi che vivevano di espedienti e di piccole frodi; il denaro serviva anche per il gioco dei dadi: con la vincita, si potevano pagare i debiti e ci si concedevano altri piaceri, mentre, perdendo, ci si giocava davvero tutto, persino gli abiti indossati. Appropriato al sentire del tempo è il sonetto di Cecco Angiolieri, uno dei primi poeti in lingua volgare: “tre cose solamente m’ènno in grado / le quali posso non ben ben fornire / ciò è la donna, la taverna e ’l dado: / queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.”. Felice Cecco dei suoi vizi terreni, oggi il “dado” più famoso è forse quello da brodo. Ma si può scommettere che anche l’altro continuerà ad avere a lungo estimatori e praticanti incalliti.
Libertas Dicendi n° 254 del Columnist Federico Formignani
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