
Quando muore un personaggio di fama mondiale, il genere umano che gli sopravvive entra in fibrillazione. I detrattori fanno capolino anche per chi ha vissuto una vita lineare, pulita, trascorsa nel solco di rilievi unicamente positivi per le doti morali che questa persona possedeva e per le azioni meritorie compiute. Figuriamoci quindi quali possano essere i giudizi sommari, cattivi e negativi per tutti gli altri (e sono molti) che hanno costellato la propria esistenza di parole, azioni e comportamenti altalenanti fra il merito e la condanna. È quello che è successo in questi giorni al Lider Maximo Fidel Castro. Fidel, con la lunga marcia dei Barbudos, ha di fatto ‘liberato’ il suo paese da un dittatore (Fulgencio Batista) e da un sistema corrotto legato a filo doppio agli Stati Uniti dei ‘facili e dorati anni Cinquanta’. Batista non è mai stato interessato alle vicende e ai bisogni del suo popolo, al contrario di Fidel che ha creato i presupposti (col famoso ‘bastone’ accompagnato dall’immancabile ‘carota’) lungo sessant’anni di Revolución socialista, per estendere a livello nazionale un ‘sistema’ che garantisse alla sua gente istruzione e sanità completamente gratuite; notevole passo avanti per chi conduceva un’esistenza davvero difficile, in alcuni casi addirittura miserevole. Con Fidel, a Cuba, il peggio è scomparso all’insegna di una maggiore giustizia sociale e il meglio, pur se modesto, ha sempre tenuto conto del merito e dell’onesta applicazione nel lavoro svolto. Sulla via dell’estremo riposo, attraverso una Cuba silenziosa e commossa che fa ala al passaggio dell’urna con le sue ceneri, è lecito chiedersi cosa resterà nel tempo e nella memoria della sua gente di questo ‘capo’così atipico, assoluto. Forse temuto, in qualche caso odiato, ma dalla maggioranza dei cubani, amatissimo.
Chi è stato a Cuba si è reso conto, parlando con la gente, del ‘mito’ Fidel. Possono essere testimonianze ‘datate’ (è il mio caso, 1997) o più recenti; ma sono sensazioni che tutti coloro che sono approdati nell’Isla Grande hanno percepito chiaramente, assimilato. La rivoluzione stava per compiere quarant’anni, quando ho visitato Cuba. Chissà come avranno vissuto la scomparsa del Jefe Lisandra dalla pelle bianca e dai capelli rossi conYanet e Maria da poco laureate, che ‘pagavano’ la gratuità degli studi svolgendo per due anni un ‘servizio sociale’ all’Università de l’Avana; solo 198 pesos al mese, che sarebbero diventati 400 una volta entrate di ruolo nell’insegnamento. Già allora, la vivacissima Lisandra incasellava gli ultimi anni (’95 e’96) come un ricordo romantico quello della rivoluzione, scivolato addirittura nel ‘feticismo’e nell’idolatria per l’amato Che Guevara. Chissà se Alina, giornalista de La Tribuna de la Habana, che aveva dietro la scrivania un grande manifesto di Fidel con tanto di sigaro in bocca, continuerà ad avere il contagioso entusiasmo di allora nel decantare le molte ‘giustizie’ del sistema; forse avrà migliorato la sua personale posizione e non dovrà più fare in bici 24 chilometri al giorno (casa-giornale e ritorno). Saranno sicuramente in pensione Pablo, taxista dell’Hotel Nacional che aveva girato il mondo in missione per conto del governo castrista prima di ritornare alla sua auto e Carmencita, pianista e vocalista del restaurante Palacio del Valle di Cienfuegos; lei, poi, era amica di Fidel e aveva cantato in missione culturale per Cuba a Lisbona, a Mosca.
Personaggi vivi e presenti nella memoria, come cento altri. Gente che affrontava le privazioni, il razionamento con l’odiatissima Libreta, l’odioso Bloqueo americano che era iniziato nel 1960, lavorando e rimanendo per quanto possibile allegri. L’anima della gente di Cuba e la voglia di vivere che la caratterizzava, era qualcosa di impensabile per noi europei; hanno anche attraversato periodi di comprensibile ‘smarrimento’ collettivo, per il semplice fatto di essere l’unico paese (o quasi) del mondo comunista. Ma la vitalità dei cubani era una costante che si perpetuava nel tempo; si respirava aria di gioventù e di incrollabile fiducia nel ‘sistema’. Forse basta il ricordo di pochi numeri che ho trovato ‘fantastici’ (per riuscire a vivere) nel 1997. Occorrevano 25 pesos cubani per fare un dollaro e lo stipendio medio oscillava tra i 150 e i 200 pesos al mese. Ecco perché mi è parso stonato l’atteggiamento dei cubani di Miami che in questi giorni hanno ‘festeggiato’ rumorosamente la scomparsa di Fidel Castro. Avrebbero dovuto mostrare maggior rispetto per i sentimenti di chi è rimasto nell’isola a piangere il ‘Comandante’, dispensatore di sacrifici e rinunce ma anche di sogni che, in tempi globalmente aridi come questi, nobilitano l’anima di un intero popolo.
del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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